PREMIO CITTÀ DELLE ROSE
Dalla quarta di copertina:
Quando la mente sospende il suo incessante mormorio di fondo, c’è qualcosa di nascosto e inatteso che può emergere nelle nostre vite. Qualcosa che sposta l’orbita in cui giriamo e acuisce l’intensità del nostro stare al mondo. Sono le apparizioni: ciò che appare e genera mutamento. Se la nostra esistenza è piena di eventi improvvisi e inaspettati, solo accrescendo percezione e consapevolezza, rendendo corpo e mente piú presenti, uscendo dalla fissità dell’ego e dal tempo degli orologi, andando incontro allo shock dell’ignoto possiamo vivere, davvero, le apparizioni. Che investano un concerto dei Muse o la musica di Arvo Pärt, un viaggio in Estremadura o i microgrammi di Robert Walser, la paura di morire, un film di Béla Tarr o un incidente ripreso su Instagram, questi frammenti intrecciano la rete segreta della nostra vera vita e reinventano il mondo, scompaginano la sua narrazione, reintegrano l’inatteso e l’incognito nel cuore dell’esperienza. Un movimento opposto al potere predittivo degli algoritmi e all’onniscienza del dio digitale che, col suo “sovraccarico da apparizioni”, satura ogni vuoto e finisce per annullarle. Il loro campo d’elezione, allora, è quello artistico, perché la letteratura, il cinema, la musica, l’arte sono apparizioni. Spaziose, meditative, contemplative, possono raccontare un’altra storia e andare nell’“altra direzione”.
RECENSIONI
Giampiero Mughini su “Il Foglio”, 13 ottobre 2020
Conosco e apprezzo da alcuni anni Andrea Gentile, il capo editoriale del Saggiatore, un trentacinquenne che gronda raffinatezza intellettuale da tutti i pori. Sono lieto di avere contribuito con una mia prefazione al Pornage, il libro sulla pornografia della mia amica Barbara Costa da lui edito. E vivevo con un senso di colpa il fatto che un paio d’anni fa non l’ho avuto proprio il tempo di leggere un suo romanzo pluripremiato, I vivi e i morti, un tomone che richiedeva quattro o cinque giorni per essere delibato quanto meritava. E dunque mi ci sono buttato a pesce su questo suo nuovo e succoso libro, Apparizioni, che la casa editrice nottetempo ha appena mandato in libreria. L’uscita di questo libro costituisce per me “un’apparizione” da come la intende Gentile, la comparsa di qualcosa che ti schiocca dentro perché la “senti”, qualcosa di cui tener conto e che diventa memoria. Un bellissimo titolo, un parametro intellettuale quanto di più sollecitante. Lo tenessero a mente quanti ogni giorno scaricano sul mio WhatsApp migliaia di immagini che sono tutto fuorché “un’apparizione”, ossia immagini di cui non tengo alcun conto perché nell”`alveare della mia mente” non c’è alcuna particella che ne sia coinvolta. E difatti alla pagina 88 del suo libro, Gentile lo scrive chiaro e tondo. Che con il suo sovraccarico di immagini e di messaggi il web “depotenzia” ciascuna immagine e ciascun messaggio contenuto sullo schermo digitale, fa muro contro l”`apparizione”. Immagini e testi che ti piombano addosso al modo di una grandinata, che è come se non li vedessimo, come se non ci entrassero dentro, non ci trafiggessero. Nemmeno un po’. A dirvi che cos’è “un’apparizione”, mi spiego meglio. Con le parole dello stesso Gentile: “La nostra mente è attraversata ogni giorno da un numero di pensieri che oscilla fra i cinquantamila e gli ottantamila. Quando, per un istante, questo fiume di pensieri si ferma, è più probabile che arrivi l’apparizione. Più è fitto il chiacchiericcio della nostra mente, più sarà difficile far vivere l’apparizione, se è vero che per far vivere l’apparizione, sentirla, c’è bisogno di consapevolezza. Più siamo disposti, aperti all’apparizione, più sarà possibile vivere la condizione necessaria per l’apparizione: l’esperienza”. E in suo testo che accompagna le copie del libro inviate agli amici, Gentile fa l’elenco delle “apparizioni” di cui racconta nel suo libro: la morte di sua nonna e il saluto dei nipoti letto al funerale, la follia del calciatore Eric Cantona quando sferrò un calcio al petto di un tifoso che lo stava insultando, i film di Andrei] Tarkovskij, le ultime immagini della dittatura di Ceausescu in Romania (pochi giorni prima di essere ucciso come un cane era stato sommerso dagli applausi della folla rumena), la volta che Gentile credette di essere ammalato di tubercolosi, la lettura dei versi di Paul Celan, le immagini di due ragazze ucraine che si riprendono al telefonino nel momento preciso in cui stanno andando a sfracellarsi con la loro auto. Tanto che il tracciato migliore della nostra vita potrebbe essere la summa delle “apparizioni” di cui abbiamo tenuto conto e la cui memoria ci rimane scolpita addosso. Persone incontrate, libri letti, canzoni ascoltate, amicizie perdute o ritrovate, il volto di una donna che ha lasciato una cicatrice, luoghi la cui malia era irresistibile, magari l’inaugurazione di una mostra d’arte. A dirla in breve, tutte esperienze letterarie. Ossia esperienze che richiedono consapevolezza e capacità di contemplazione nel presente, nell’attimo in cui le cose accadono e accadono in quel modo lì. Fermo restando che le “apparizioni” che lasciano una maggiore traccia sono quelle dolorose, negative. Delle reazioni che hanno incontrato i miei numerosi libri in chi li ha letti, quella che ricordo con maggiore intensità è la lettera che Carlo Mazzantini (l’ex volontario della Rsi autore di A cercare la bella morte, il più bel romanzo sulla guerra civile raccontata da uno che stava da quell’altra parte) mi scrisse all’uscita dell’unico romanzo che io abbia mai scritto, La ragazza dai capelli di rame del 1993, e che a lui non era piaciuto affatto. Me lo scrisse con affetto, con lealtà. Carlo avrebbe potuto tacere e lasciar perdere, e invece sentì come il dovere di scrivermelo e spiegarmene le ragioni. Per quanto ovviamente mi spiacesse quel suo giudizio, lo presi come una prova di grande amicizia. Eccome se era stata “un’apparizione”, un lampo di luce seppure per me dolorosa. Gentile gira e rigira attorno alla condizione sentimentale e morale di chi si sta aprendo alle “apparizioni”, e nel farlo va per ogni dove dell’esistenza quotidiana di noi tutti. E’ come se ci facesse delle raccomandazioni fraterne, preziose: “Contemplare l’istante. Non fare mai tesoro. Assicurarsi di essere. Indugiare. Reinventare il mondo non a tavolino, ma esplorandolo. (Non) dire l’impossibile. Accogliere il sentimento della morte. Abbattere le pareti della lingua. Perdere identità. Dimenticare lo stile. Essere spaziosi. Stare dentro l’intervallo. Non sapere. Nulla”. Sì, non sappiamo nulla. Basterebbe che noi tutti lo ammettessimo e ci convivessimo con questa ammissione. Basterebbe apportare un po’ più di silenzio a questa nostra vita che invece abbiamo reso frenetica nel cercare non sappiamo bene che cosa. Com’è di quel colloquio tra Franz Kafka e Gustav Janouch di cui racconta Gentile. Kafka aveva in mano il supplemento domenicale di un giornale dov’era la domanda rivolta ad alcuni scrittori “Che cosa potete dire dei vostri futuri progetti letterari?”. Al che Kafka commenta con l’amico: “Non si può rispondere a una domanda simile. Si può forse prevedere come batterà il cuore nei giorni a venire? No, non è possibile. La penna è solo un sismografo del cuore. Si possono registrare i terremoti, non prevederli”. Laddove i dilettanti allo sbaraglio di cui è zeppa la nostra odierna comunicazione massmediatica ce lo chiedono a ogni istante della giornata: “A che ora e in che giorno avverrà il terremoto? Quale sarà la sua intensità? Che fare per pararne gli effetti?”. Fosse per loro non ci sarebbe mai uno scroscio di pioggia senza che noi non avessimo già aperto gli ombrelli. Fosse per loro la società funzionerebbe come un presepe dove mai nessuno cambia ritmo al suo gioco, mai nessuno contempla “un’apparizione” che sbaraglia le mappe cui era abituato. Valga per tutte la pagina in cui Gentile ricorda che durante le esequie dei morti a causa del crollo del ponte Morandi a Genova, Matteo Salvini si fece un selfie con una sua fan quasi a far valere l’idea che ci fosse stato lui a capo delle Autostrade italiane mai e poi mai il ponte Morandi sarebbe crollato. E a non dire delle coeve e orripilanti immagini in cui l’allora capo del governo Giuseppe Conte e (se non sbaglio) Luigi Di Maio assumono un’aria tronfia mentre qualcuno per strada li applaude a poche ore dalla tragedia, e come se loro sarebbero stati in grado di impedirla. Immagini al limite del sacrilegio. Il contrario come più non si potrebbe delle “apparizioni”.
Cristiano De Majo su “Rivista Studio”, 31 ottobre 2020
A ottobre mi è capitato di leggere due libri usciti da poco per certi versi simili, per certi versi opposti. Uno è Apparizioni di Andrea Gentile (Nottetempo); l’altro In autunno di Karl Ove Knausgård (Feltrinelli). Il libro di Gentile è una divagazione letteraria che procede per collegamenti e associazioni di idee. Il tema è quello delle coincidenze e delle “apparizioni” appunto; vette di rivelazione che vengono raggiunte casualmente nel corso di giorni apparentemente insignificanti. L’andamento è circolare, procede per aneddoti, che si legano e vengono spiegati da una ricchissima collezione di citazioni letterarie, scientifiche, artistiche, cinematografiche. Così come Apparazioni è un libro teso all’accumulazione di indizi, In autunno è costruito sulla sottrazione. Lo stesso Gentile cita Knausgård, riferendo una lezione di scrittura seguita dal norvegese in cui gli viene chiesto dall’insegnante di smetterla di concentrarsi sulla superficie delle cose. Ed è effettivamente questo il traguardo inverosimile di questo libro, parlare con la forma del diario di nulla in particolare e di tutto (di quotidianità, di piccoli accidenti, di famiglia, di noia, di tempi morti, di micro-osservazioni del quotidiano) in modo estremamente profondo. L’insegnamento per il lettore è che, quando ci si trova di fronte alla Scrittura con la s maiuscola, essa può in effetti non raccontare, permettersi di liberarsi dalla dittatura dell’interesse e bastare a se stessa. Quasi con un approccio sapienziale, Gentile cerca di decifrare l’inspiegabile. Knausgård invece rappresenta il mistero attraverso la semplicità. Entrambi i testi ci dicono naturalmente che l’arte di scrivere può essere scovata in testi dove l’affabulazione è qualcosa di più (o meglio: qualcosa di meno) del “ti racconto una storia”.
Luca Romano su “Huffington Post”, 3 novembre 2020
“Che cos’è un’apparizione?
Tutto appare: viene alla luce.
Il nostro stare al mondo è un flusso continuo di eventi improvvisi e inaspettati. Tutto ciò che ci accade, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, è un evento improvviso e inatteso: la coda in automobile in una città di provincia in estate (un piccolo tamponamento imprevisto davanti a noi e via, dieci minuti inaspettati), la caldaia che smette di funzionare, la presenza di qualunque cliente nel bar dove prendiamo il caffè (se non è improvvisa e inattesa la presenza di un altro cliente, lo è, invece, la presenza di quel determinato cliente: perché proprio lui, con la pancia da alcolista? E lui, con il volto anonimo, dimenticabile? Perché proprio lei, con le unghie glietterate?)”.
Cos’è una apparizione? è una domanda che di per sé potrebbe far pensare a molteplici risposte, a parecchie vie da prendere e a diversi pensatori e filosofi. È una domanda alla quale spesso è complesso rispondere, se non partendo un orizzonte di eventi che la costituiscono, per arrivare a una definizione estremamente pregna di significati. Ed è proprio da alcuni eventi che parte Andrea Gentile per condurre il lettore all’interno di Apparizioni, pubblicato da pochi giorni per Nottetempo.
Senza dubbio l’incipit dedicato alla nascita del bambino riporta alla più famosa apparizione della cultura occidentale, ma è anche nell’evento più piccolo che si può ritrovare l’apparizione, è nel vedere su Instagram, e successivamente in maniera più diffusa sui social e su diversi siti, il video di Dasha e Sofia, due ragazze ucraine che in diretta fanno un incidente in auto e muoiono.
Ma in che modo ciò che accade può esser chiamato apparizione? Scrive Gentile:
“Non c’è apparizione se non c’è sensazione.
Non c’è presente senza sensazione.
Non c’è sensazione senza consapevolezza.
Non c’è consapevolezza senza contemplazione.
Come abbiamo visto, ogni apparizione in vita genera una sensazione sul nostro copro. Una sensazione è un collegamento tra un oggetto e la mente. Qualcuno urla, dall’altra parte della casa, e noi ci spaventiamo. Spaventarsi significa avere sensazioni sul corpo: un brivido lungo la schiena. Senza consapevolezza, quel brivido ci sarà comunque. Ma se non ci facciamo caso, la nostra vita scorrerà così, nella dispersione, completamente abbandonati al mondo esterno.”
Ecco che l’apparizione è sicuramente legata a una forma di attenzione per l’evento, che non è semplicemente una presa di coscienza, ma è una trasformazione. Inoltre, infatti, è necessario capire cosa può essere un evento. Perché sin dall’inizio del ’900 molti filosofi hanno iniziato a interrogarsi su cosa fosse un evento, da Husserl a Gadamer a Derrida, spesso senza trovare un punto d’incontro. In questo caso Andrea Gentile si fa carico di una certa costruzione fenomenologica dell’apparizione come immagine del mondo che si offre, e la riporta all’interno di una capacità di cogliere quell’immagine. Ma l’apparizione non è solo un’immagine nel senso figurativo, appunto, è un darsi del mondo costante che viene colto e riportato all’interno di chi guarda. Ma è anche un darsi che può non essere colto e continuare a fluire impercettibile. Ma ecco che si presenta un altro nodo della questione: all’interno di chi deve arrivare l’apparizione? Chi è che coglie l’apparizione?
Scrive Gentile:
“L’ego è sempre al centro delle nostre narrazioni. Io sono una persona onesta. Io sono una persona golosa. Io sono una persona generosa. In realtà, l’ego è una percezione in continuo mutamento. Non è una cosa. Non essendo una cosa, non può estinguersi, non può essere eliminato. A potersi estinguere è la convinzione che esista un sé permanente e immutabile.
Questo è un piccolo nodo delle esperienze artistiche: lo scrittore, il regista, l’artista visivo, per generare un’esperienza artistica delle apparizioni, deve giungere, tramite l’opera, a questo stato: non esiste un sé permanente.”
Il percorso compiuto da Gentile passa dall’apparizione come piccolo evento social e permea tutta l’esperienza del soggetto, che arriva a mettere in discussione il concetto classico occidentale di identità, quindi anche la propria identità singolare, fino a ritrovarsi in un sé mutevole e soggetto agli eventi e alle apparizioni.
Questo aspetto si rispecchia anche nello stile saggistico utilizzato da Andrea Gentile che, infatti, si mostra estremamente aperto, contaminato e contaminante, il lettore espande tutti i singoli capitoli con le proprie esperienze, con il proprio vissuto, con ricerche sui social, con video su youtube o con altri libri ai quali fa riferimento lo stesso Gentile.
Apparizioni è un saggio ricco di porte che ogni lettore può aprire per trovarsi davanti a nuove esperienze, nuovi eventi, nuove apparizioni, ma è anche un saggio filosoficamente complesso, che eredita dibattiti e confronti dalla storia della filosofia come dalle discipline orientali di meditazione e filosofiche.
Laura Pugno su “Il Piccolo”, 22 novembre 2020
Vuole una tesi forte che molta della migliore poesia italiana contemporanea — Antonella Anedda, Stefano Dal Bianco, Guido Mazzoni — cerchi le proprie ragioni d’essere andando a sconfinare nei territori della saggistica. Compie il movimento inverso il saggio “Apparizioni” (Nottetempo) di Andrea Gentile, andando a cercarsi nei territori della poesia, lì dove il bianco, lo spazio, entra nella sistole diastole del nero, il testo, interrompendo e creando il suo ritmo proprio come le apparizioni fanno sul flusso deconcentrato del nostro stare al mondo, improvvisamente rivelato all’intensità.
Alfonso Berardinelli su “Il Foglio”, 27 novembre 2020
Credo che non sia facile per nessuno eguagliare in originalità e percettività un libro come Apparizioni di Andrea Gentile. Ho cominciato a leggerlo sia incuriosito che scettico, chiedendomi che argomento, che tema, che oggetto di discorso potesse essere quello così semplicemente enunciato nel titolo. Già le prime pagine, però, mi hanno fatto capire tutto. Le apparizioni a cui Gentile ha dedicato la sua indagine sono qualcosa di fondamentale, benché trascurato. La nostra vita mentale e psico-emotiva, ma anche fisica, cioè il nostro mondo, o quello che il mondo è per noi, è in realtà fatta di apparizioni: di quelle a cui siamo capaci di fare spazio e di tutte quelle alle quali la nostra mente indaffarata e distratta impedisce di emergere. Per dare corpo al suo oggetto, a un tale fenomeno della soggettività, Gentile ha dovuto sviluppare in sé il tipo di attenzione e di scrittura necessarie. Non si sa perciò come definire il suo libro usando le categorie convenzionali con cui etichettiamo i prodotti letterari offerti dal mercato. Un manuale di autocoscienza? Un reportage fenomenologico sulla percezione intensificata? Un’indagine diaristica e saggistica su quanto ci permette o ci impedisce di vivere consapevolmente? Ci sono libri, non molti, che esplorano spazi dell’esperienza che comunemente si sottraggono al pensiero, o più precisamente a quel turbinio di mezzi pensieri che si frappongono come una molle e inconsapevole barriera fra la mente e il presente reale in cui siamo, rendendolo irreale o meno reale. Un’apparizione è invece la percezione consapevole che in un istante realizza una qualche realtà, anche se immaginaria o fittizia. Non importa quanto queste realtà siano importanti se misurate con le varie scale di valori storici, scientifici o politici. La cosa che conta è l’istantanea apparizione in sé stessa. La fisionomia della nostra vita mentale è disegnata dalla trama che connette questi momenti illuminanti: dovuti o a esperienze artistiche del tutto personali e singolari, o a quelle passività contemplative che permettono di accogliere semplicemente ciò che l’attimo contiene e che misteriosamente ci modifica creando in noi un nuovo spazio percettivo. Gentile parla spesso di apparizioni provocate da varie arti. In effetti nell’estetica del Novecento, del cui influsso in parte continuiamo a vivere, le apparizioni rivelatrici hanno modificato l’idea dell’arte e la struttura delle forme artistiche. E’ il lato per così dire mistico, o ascetico, o lirico, delle rivoluzioni artistiche del Novecento. Per Proust e per Joyce gli attimi rivelatori e irradianti, le sorprese della memoria involontaria o l’intensità della singola immagine che si sprigiona dal vuoto, invece che dipendere dalla struttura narrativa, la creano e la impongono all’autore. Spiegando come si è reso possibile il nuovo romanzo di primo Novecento, da Pirandello a Joyce, da Proust a Kafka, fu Giacomo Debenedetti a mostrare che certe destabilizzanti apparizioni hanno costretto a inventare forme di narrazione ignote nell’Ottocento, nelle quali la percezione è dilatata e potenziata fino a provocare rivoluzioni interiori e svolte di destino. Si è parlato di superamento del realismo ottocentesco. Ma Viktor Sklovskij, uno dei cosiddetti Formalisti russi, parlò di “straniamento” percettivo come uno degli accessi privilegiati alla realtà, a una maggiore realtà, per esempio in Tolstoj, il più realista dei realisti. Sono certe inaspettate apparizioni a cambiare il senso alla vita di un personaggio. Nello straniamento si vede all’improvviso qualcosa che le abitudini reprimevano e nascondevano. E’ così, dice Sklovskij, che Tolstoj “ha preso le distanze dalle normali forme del romanzo”, dando un’importanza decisiva a dettagli e circostanze in precedenza insignificanti che si impongono all’improvviso come decisive. Si tratta, mi pare, proprio di apparizioni nel senso in cui ne parla Gentile. Quando scrive che “non esistono apparizioni false” vuole dire che nell’esperienza di un’apparizione il reale convenzionale può smettere di essere vero e il non ancora vero si realizza. Era avvenuto in Tolstoj e sarebbe avvenuto in Kafka.
Chiara Fenoglio su “Che Fare”, 30 novembre 2020
«Fossimo qui schematici, rigorosi, novecenteschi, scriveremmo che è necessario distinguere tra una letteratura della visione e una della sensazione. Ci schiereremmo poi dalla parte della seconda, perché spesso la letteratura è presa come una battaglia. Eppure, in questa vita, c’è poco da battagliare. Quel che è, è. La letteratura non è combattimento, e poco importa che Dante parlasse di “spazio aringo”. È piuttosto uno stato, una meditazione».
In questo breve stralcio dell’ultimo libro di Andrea Gentile c’è qualcosa più di una canonica dichiarazione di poetica: Apparizioni è in effetti un testo non schematico, non rigoroso, divagante, costruito a partire da sentieri che si interrompono e si ricompongono continuamente, non novecentesco nella misura in cui la letteratura nel secolo scorso è stata per lo più ideologica, combattiva, severa nella sua impostazione, visionaria.
Per certi versi Apparizioni è piuttosto un testo settecentesco, sia per la sua natura digressiva (come in Diderot la narrazione era guidata dal passo imprevedibile dei cavalli di Jacques e del suo padrone, oltre che dalla bottiglia di vino a cui si affidavano, così qui potremmo dire è ritmata da ricordi, letture, aneddoti in vario modo legati alla percezione del nostro essere qui, ora, vivi o malvivi), sia per il primato assegnato al mondo delle sensazioni, un mondo indagato – per continuare sulla scia del modello diderotiano – proprio come stimolo, come atto di esperienza che si colloca tra la sensazione e il pensiero conseguente, e dal quale sorge la letteratura.
Analogamente a Diderot, che nella Lettre sur les aveugles si era interrogato sul rapporto tra l’esperienza sensoriale e la sua espressione linguistica, Andrea Gentile si domanda, nell’epoca della riproduzione digitale e di una tanto immediata quanto illusoria disponibilità del reale, che cosa significhi vedere: e lo fa a partire dalla più drammatica delle visioni, quella della morte in diretta youTube di due ragazze ucraine. Che cos’ha a che spartire tutto ciò con la vita di ciascuno di noi? Che cos’ha a che vedere con la creazione artistica, che (sia essa scultura, performance, cinema o romanzo) ha tradizionalmente bisogno per realizzarsi di un atto di contemplazione?
La risposta, suggerita da Gentile come si suggerisce una cura medicamentosa in un’epoca di generale calamità, è che l’oggetto dell’attenzione artistica debba essere attratto nel proprio orizzonte, osservato nello spazio circoscritto e protetto del templum: debba dunque concretizzarsi in un tempo, nell’istante in cui l’apparizione si trasforma in esperienza di durata.
A questo punto sarebbe legittimo domandarsi: di che tipo di libro stiamo parlando? Apparizioni appartiene forse alla critica letteraria? O si tratta piuttosto di una originalissima autofiction? Non sarà piuttosto una meditazione filosofica? O ancora un diario di pensées détachées?
Forse, più plausibilmente, si potrebbe parlare dello zibaldone di riflessioni di un artista che cerca la sua via tra le neuroscienze di Stanislas Dehaene e il manifesto di “pittura nucleare” di Enrico Baj, passando per le poetiche-lampo di Andrea Zanzotto e i lungometraggi di Reiniger.
Apparizioni è, credo, tutto questo, e nulla di tutto ciò: è specchio di una mente «attraversata ogni giorno da un numero di pensieri che oscilla fra i cinquantamila e gli ottantamila» e il cui dinamismo deve tuttavia trovare un punto di equilibrio, secondo il principio classico della quies inquieta indispensabile alla creazione artistica: «Siamo fermi sul divano e ci sembra di non fare assolutamente nulla. Sta succedendo qualcosa? Sì. Le molecole nel nostro corpo non sono immobili», è sufficiente una sottile, appena percepibile vibrazione e nel flusso continuo della nostra esistenza qualcosa muta, si apre lo spazio (il templum) dell’inatteso.
Ma a questo punto una seconda domanda si accampa, ancor più urgente della precedente, e ha a che fare con il rapporto tra questa idea consacrante del fatto artistico e il nostro presente: che cosa rimane infatti dello spazio dell’inatteso nel mondo digitale dove l’apparizione può essere prevista con precisione da un algoritmo? Che cosa resta di un oggetto artistico se si abolisce quella aspettativa («grande e buona» avrebbe detto il Colombo leopardiano) che fino a ieri rendeva possibile la contemplazione?
Sullo schermo di un computer, nello spazio virtuale di Instagram, la «pura vita» assume contorni irreali, l’elemento corporeo, materialistico nella sua derivazione illuministica, diventa rito magico replicable infinite volte alla velocità di un click. Se le nuove tecnologie del 4.0 e il dominio dei social network sembrano sottrarre spazio e tempo alla possibilità dell’introspezione, Andrea Gentile lega questa possibilità non all’ascesi o alla psicanalisi, bensì all’ascolto del proprio corpo, all’immersione consapevole nella realtà (preferibilmente urbana) in cui siamo costretti.
L’idea di apparizione che sta a fondamento di questo libro non ha nulla di scenografico o paesaggistico, men che meno di soprannaturale; essa è al contrario prodotta da tutto lo spettro delle sensazioni corporee, da sobbalzi, tremori, contrazioni, umori, tutt’al più da qualcosa di invisibile che avviene al suo interno e che si manifesta esteriormente in modo ambiguo o fastidioso (una macchia rossastra scambiata per immunodepressione, un banale prurito, la prima ruga).
D’altro canto è pur vero che alle origini stesse della letteratura occidentale, già Dante collocava proprio una apparizione femminile capace con un suo gesto di portare salvezza: Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quando altrui saluta…
Allora, come oggi, si tratta di un’apparizione capace di rovesciare il mondo, come la parata di René Higuita durante l’amichevole Inghilterra-Colombia del 1995: prodotto di una sequenza perfetta di complesse azioni biomeccaniche, “lo Scorpione” – come fu subito battezzata – è tuttavia qualcosa di più di un semplice gesto atletico: è capacità di stare nel momento, di trasformare un lungo allenamento in impresa memorabile. È, dunque, il contrario dell’immagine digitale che sopprime lo spazio dell’inatteso, che rende il diverso omologo, l’unico replicabile, il singolare multitasking: se, come scrive ancora Gentile, viviamo ormai nel troppo pieno con un generale effetto di sovraccarico cognitivo e dunque di disorientamento, è dovere dell’artista recuperare una certa lentezza, uno spazio più vuoto perché non ancora previsto, uno spazio «dove non siamo mai stati».
Matteo Moca su “La Balena Bianca”, 30 novembre 2020
Oliver Sacks, in uno dei suoi libri più belli, sottolinea come la parola «allucinazione» sia entrata nell’uso del linguaggio comune nel Cinquecento quando significava «semplicemente un vaneggiare, una “mente errante”». Fu nel corso dell’Ottocento che la parola ha assunto il significato attuale mentre prima quelle che noi chiamiamo allucinazioni erano indicate, in maniera molto semplice, come «apparizioni». Definire e distinguere i significati delle due parole, continua Sacks, non è semplice, ma nel nostro parlare comune possiamo forse individuare un discrimine tra le allucinazioni che si avvicinano più a eventi che nascono in «assenza di una qualsiasi realtà esterna» e le apparizioni che invece hanno un punto di origine che incrocia e tange il mondo fenomenico.
Il nuovo libro di Andrea Gentile, Apparizioni appunto, pubblicato da nottetempo, si compone proprio di un quadro disomogeneo e complesso di immagini improvvise, squarci nella regolarità del pensiero e dell’esistenza che, se attivano un pensiero, si tingono di caratteri rivelatori: «Non c’è apparizione – scrive Gentile – se non c’è sensazione. Non c’è presente senza sensazione. Non c’è sensazione senza consapevolezza. Non c’è consapevolezza senza contemplazione». Ciò che Gentile cerca di costruire attraverso il suo libro è una comprensione del mondo assolutamente personale, tale infatti è il carattere delle apparizioni (perché «tutto appare, viene alla luce», ma un’apparizione, per essere tale, deve generare un mutamento e grazie a esse, aggiunge Gentile, «ci sentiamo vivi»), proprio a partire da lampi improvvisi: così si affastellano una serie di quadri differenti che muovono in chi li vive qualcosa spesso di inspiegabile ma che, processato dalla mente, si fa memoria e luogo di nascita di un nuovo pensiero.
Uno dei primi avvenimenti di questo tipo di cui Gentile parla ha a che fare con un tragico incidente mortale di due giovani ragazze filmato da loro stesse in diretta su Instagram e nelle pagine successive torna spesso a concentrarsi sulle immagini che popolano il web e sottolinea come il mondo digitale, nonostante sia «lo spazio più in grado di generare apparizioni», un vero e proprio aggregatore di apparizioni, nasconda però in sé, soprattutto se l’esperienza arriva direttamente ed esclusivamente dallo schermo, il rischio di «depotenziare» la realtà. Walter Siti già nel 2006 in Troppi paradisi parlava di un depotenziamento della realtà di cui era responsabile il mezzo televisivo («Quella che di solito, sbagliando, chiamiamo “irrealtà televisiva” è invece realtà depotenziata. La realtà mostrata in tivù deve essere accettabile (e produrre denaro): dunque è bene tenerla sotto controllo, aggiustarla prima che la telecamera la riprenda»), ma questo processo è negli ultimi anni esploso e la sovraesposizione continua di immagini e contenuti ha finito per anestetizzare la percezione del reale di ognuno («L’ipercomunicazione distrugge invece sia il tu sia la vicinanza, le relazioni sono sostituite dalle connessioni» ha scritto in Psicopolitica il filosofo coreano Byung-Chul Han, che torna anche nelle pagine del libro di Gentile). Dove sta allora il carattere importante delle apparizioni in una società in cui il lampo improvviso è sempre pronto a essere sostituito da un nuovo input senza alcuna soluzione di continuità? Sta all’interno di un paradosso banale e ripetuto come un mantra negli ultimi anni: una dose così massiccia di informazioni e immagini, la possibilità così ampia di poter conoscere e comprendere attraverso la rete si trasforma in un grande buco nero, dove ad avere la meglio sono spesso gli sviluppi “peggiori”, le fonti non accreditate, la violenza di gruppo, il senso di invincibilità che dona un profilo anonimo.
Eppure il libro di Gentile, che pure dedica spazio alla realtà digitale e a ciò che accade sui social, come la tragica e inquietante vicenda di una ragazza che chiede ai suoi follower se vivere o morire e al termine della votazione si lancia dal terzo piano, si pone intelligentemente nella posizione di un osservatore curioso e attento a non cedere del tutto a questa che oramai più che una verità è una semplificazione, trovando una via di fuga percorribile dal paradosso avvolgente cui si è accennato sopra. Perché, come emerge dal libro, ed ecco una delle sue risorse maggiori, le apparizioni sono molto altro e sono strettamente legate all’esperienza concreta, fisica, piacevole o dolorosa che sia: sono per esempio dei lampi improvvisi che si realizzano quando si è vicini a una persona in fin di vita (ed è interessante il fatto che l’apparizione simbolo di vitalità del pensiero dialoghi così da vicino con la morte), sono i ragionamenti che nascono da una conoscenza e coscienza dei processi che avvengono nella mente (numerosi sono i riferimenti alla filosofia della scienza e alle neuroscienze) o le improvvise illuminazioni che genera l’arte, la musica o la letteratura. Però si tratta sempre, come è evidente e naturale, di spezzoni, particelle, dettagli di quadri incompleti: qualsiasi cosa si voglia conoscere la nostra padronanza non sarà mai totale, perché questa cosa ci è esterna e così resterà, e a nostra disposizione esiste solo la sensazione, quella che fa in modo che un’apparizione sia tale e che si spalanchino le porte dell’ignoto e movimenti inediti del pensiero.
Gentile, che in Apparizioni fa uso di una narrazione che parte da esperienze autobiografiche che sembrano come il centro di ragnatele ampie e resistenti dalle improvvise e numerose ramificazioni, immerge questa esperienza nella quotidianità perché questa è l’unico supporto con cui ci possiamo confrontare concretamente. Stride talvolta, nel corso del libro, questo appigliarsi al mondo fenomenico con una riflessione che sembra ogni tanto scordarsi di tale ancoraggio fondamentale, ma forse sta anche in questo leggero e persistente scarto la natura più profonda del nostro rapporto con il mondo e la riflessione su di esso, proprio nell’impossibile addomesticamento del pensiero nel suo lanciarsi, libero, lungo gli itinerari dell’interpretazione. La natura spezzettata del mondo è infatti l’espressione più aderente del contemporaneo e allora, per usare le parole di Gianni Celati nel suo saggio Il bazar archeologico, indagare «l’oggetto dimenticato che emerge come scarto o detrito» è avvicinarsi alle apparizioni, a questi relitti di reale in cerca di attenzione ermeneutica.
Francesco Pacifico su “Il Tascabile”, 7 dicembre 2020
Nel ventunesimo secolo, sulle ceneri dello scontro fra il Nuovi Argomenti moraviano e il Gruppo 63, si è combattuta, a colpi di indifferenza reciproca, una silenziosa guerra fredda per l’anima della letteratura italiana. Lo spesso sipario che divide i due schieramenti è ricalcato per molti versi sulla cortina di ferro e sulla divisione Moravia/Sanguineti: da una parte ci sono le Ferrante, i Veronesi, gli Starnone; dall’altra i Pecoraro e le Laure Pugno.
È una metafora grossolana ma la scrivo soprattutto per costruire un complimento ad Andrea Gentile e un’analisi del suo ultimo libro, Apparizioni (Nottetempo, 2020). L’immagine della guerra fredda mi serve per dire che da quello che vedo e leggo, c’è una letteratura che si muove definendo e ridefinendo i termini della vita borghese e sperimentando al suo interno con lingua e codici; e c’è una letteratura che si muove in delle zone autonome di disinteresse per la narrazione borghese (ossia quella su declino/ascesa, perdita dell’innocenza, maturazione del giovane protagonista o riscoperta di una libertà interiore di un protagonista di mezza età) per scegliere invece di abitare il capannone letterario abbandonato alla Petrolio oppure le vie traverse fra il magico e lo psichedelico in chiave politica.
Gentile appartiene alla seconda scena: oltre ad aver scritto I vivi e i morti per minimum fax, romanzo decisamente non di interni e di psicologie ma del tipo magico, è direttore editoriale del Saggiatore, una delle case editrici protagoniste del mondo editoriale alternativo contemporaneo. Pur appartenendo a questo mondo, Gentile se ne discosta per un aspetto fondamentale. Di norma, questa fazione, quanto più sfrutta i registri di magico, weird, eerie tanto più si rivela materialista; lui invece sta cercando di fare una letteratura spirituale, concentrata sulla morte. Quel che sta facendo quindi non sta bene neanche nella scena di cui fa parte. Per certi versi, questo scrittore sembra uno che ha ascoltato un alter ego di Woody Allen parlare di Kierkegaard e si è fermato a dialogarci ma senza l’ironia perbenista di Allen, e senza, quindi, la comedy of manners: “La vita si manifesta su un oceano di morte… La letteratura vive negli spazi indefiniti, nei luoghi dove non giunge la parola, negli spazi ignoti generati dal poetico. La parola ci porta oltre la parola, nell’indicibile, ed è così che l’ora sfugge di mano, secondo dopo secondo, mattina, mezzodì, di sera, a notte”.
Gentile scrive in modo da dare una sponda al suo percorso spirituale, e oggi pubblica un libro che non fa attualità, non entra in una tendenza, non è davvero consumabile, rimane lì come un oggetto indigesto e discontinuo, né memoir né narrazione né saggio, ma non tanto per le caratteristiche formali quando per lo scopo: Andrea Gentile è un Florenskij, cerca la trascendenza nel metallo delle icone, nel tasto pausa di Youtube; se sceglie di posizionarsi in quel secondo mondo che dicevo, e non nel mondo borghese, è perché in questo momento sembra più possibile avere una vita letteraria spirituale stando in compagnia dei materialisti che in quella di chi racconta sempre del marito in crisi galvanizzato da un successo professionale e dalla tresca con una manic pixie dream girl, come in tanti romanzi della corrente moraviana. Gentile si è posizionato nello scenario tarkovskiano della parte sanguinetiana della letteratura italiana di oggi per compiere certi viaggi nella parola allo scopo di indagare il rapporto tra la vita e la morte: le apparizioni che racconta nel suo libro gli servono a capire a che distanza siamo dal senso perduto e dall’infinito.
Il suo viaggio comincia quando rimane scioccato dal video snuff di due ragazze che fanno un incidente mortale mentre si riprendono in macchina col cellulare: “Le due amiche bevono alcol, urlano, scherzano. Una grida ‘hi boys’ alla camera. Dasha fa il segno della vittoria, indice e medio, con entrambe le mani”. Autorappresentazione come la facciamo tutti, ma poi: “Un altro sorso. Urlano. Rumore di ‘tremendo impatto’. Buio. Silenzio”. Gentile trova il video sul sito di un quotidiano italiano: “Ucraina, morte in diretta su Instagram: due ragazze si schiantano in auto”.
Ma non usa l’aneddoto per meditare su dove stiamo andando come società: anche se comincia con del delillismo di terza generazione – “La guardo mille volte. Prima esploro, tra un pause e un play, l’istante in cui tutto cambia. Il passaggio tra la vita e la morte. Quale l’ultimo respiro? … Poi mi soffermo sulle ragazze…” – il finale di questa prima scenetta apre in una direzione inaspettata, deliberatamente insensata: “Cerco di studiare ogni singolo dettaglio del viso di Dasha, ma è buio, fuori è notte, e lei si muove continuamente. … Ne sono certo. … Nessun dubbio: conosco quella ragazza”.
È un inizio stranissimo. Cosa vuol dire? Perché ha la sensazione di conoscerla? Che tipo di libro vuole fare? Quindi non è un saggio “sul contemporaneo”? Comincia l’indagine, il tentativo montaignesco di riflettere su questioni importanti: come funziona la nostra mente rispetto al senso della morte, cioè come si dispongono i sensi e le capacità cognitive quando l’io, questa formazione spettrale e sfarfallante che funziona a malapena, cerca di allungare un braccio per afferrare il senso della propria insensatezza e insieme il senso del viaggio della vita. La passeggiata in città di benjaminiana memoria, con cui Gentile va a caccia di apparizioni per capire se stesso, diventa la porta dimensionale per questo viaggio, purché si ragioni sulle circostanze: “le apparizioni però sono, inconsciamente, boicottate dall’essere umano, che talvolta cerca di monitorare il proprio cammino, in quanto per natura inadeguato alla flânerie. Inadeguato ad andare incontro all’ignoto, ignaro che prima o poi sarà l’ignoto ad andare incontro a lui: c’è bisogno di contemplazione, c’è bisogno di quiete. ‘Ma acquietarsi’, scrive Jerzy Grotowski in un intervento pubblicato su Dialog, ‘non vuol dire stare immobili’. … Molto spesso, per ritrovare la quiete bisogna correre. … Si tratta allora di porsi la domanda: ‘Come essere se stessi?’”
La fiducia di Gentile nella letteratura è entusiasmante. Mentre da un lato ammicca alla modalità dei libri alla Oliver Sacks quando cerca di capire cosa sia la coscienza – spiegando questo o quel risvolto delle nostre attività cognitive –, dall’altro propone ben altro che la divulgazione da coffee table che si cerca oggi quando si consuma quel tipo di saggio: nel suo libro splende la fiducia che mettersi a pensare per iscritto alla propria ricerca esistenziale possa generare qualcosa che sia letteratura anche se non assomiglia a un prodotto editoriale né del tipo pedagogico divulgativo né del tipo moralista. (È grande quindi anche la fiducia dell’editore Nottetempo, che già aveva fatto un lavoro affine con In territorio selvaggio di Laura Pugno, riaffermando la letteratura come vuoto, vuoto commerciale e morale, puro baluginio estetico esistenziale.)
Gentile gira per il mondo, ma soprattutto per Milano, in una ricerca di se stesso quasi dovesse un giorno aprire la porta del bagno di un bar e trovarci un altro Andrea Gentile che si lava le mani. “È possibile affrontare la città con contemplazione. Camminare in centro, a due passi dal caos delle vie commerciali, e vivere, sentire, diverse apparizioni. Poche su tutte: osservare gli esterni di una villa e scovarvi, in pieno centro, la lucentezza di decine di fenicotteri rosa. Trovare un palazzo, progettato da Giulio Ulisse Arata, che fonde romanico, liberty e gotico…” Più questa ricerca si approfondisce più sembra demenziale, ma Gentile, che non è uno di quei discendenti degli illuministi che pensano che le cose possano avere solo un senso pragmatico, riesce a mantenere una serietà che lo fa sembrare un Buster Keaton del ragionamento. Il libro è un pullulare di scene che stanno tra il primo Michel Gondry e i secondi Beatles:
Al pomeriggio, in centro – dopo un pranzo da Jollybee… imprescindibili, per una distorsione di percezione, gli spaghetti di ketchup alla banana, oltre a fegato e würstel rossi, dolcissimi, studiati per le papille gustative dei popoli del Sud-Est asiatico, che amano lo zucchero nei pasti salati –, si passa presso la chiesa di San Bernardino alle Ossa. … La chiesa barocca custodisce un ossario. … Ogni parete, nicchia, singola sporgenza di questo piccolo ambiente è ricoperta di ossa umane, che arrivano dall’ex ospedale accanto, con annesso un cimitero. Quando, nel 1622, il cimitero si dimostrò insufficiente ad accogliere i cadaveri, i teschi, le tibie, i femori, gli stinchi, le mandibole divennero materia prima architettonica…
Mentre leggo di femori e stinchi sto ancora mormorando fra me: “ketchup alla banana…”
È che vuole coinvolgerci nella sua contemplazione: “Altra condizione affinché la percezione viva è la disponibilità alla contemplazione. “Contemplare”, “contemplari”: attrarre nel proprio orizzonte; osservare (il volo degli uccelli) entro uno spazio circoscritto detto templum. … Non c’è vita umana senza apparizioni. Per essere però consapevoli di più apparizioni possibili non si può che rovesciare tutto: per contemplare non basta stare fermi, immobili. È necessario costruire uno spazio interiore e rimodellarlo giorno dopo giorno. Andare incontro allo shock dell’ignoto…”
Questo libro risponde a una questione che ho avuto in mente negli ultimi mesi. Penso al senso di grande pragmatismo e signorilità che hanno i lettori quando si fanno recensori e dicono: “Mi è piaciuto, sì, peccato per…” e citano le parti di un libro che non “funzionano” – certi finali, certi intervalli, certe situazioni troppo lunghe – come se stessero lamentandosi della difficoltà di orientarsi dentro una Asl, o del manuale di una stampante. Apparizioni è fatto per non “funzionare” nel suo insieme, come libro, come prodotto, perché è strutturato come una città dove poter ricevere le proprie rivelazioni. È un libro pieno di vuoti, che lascerà ciascuno intontito o indifferente a modo suo, consegnandogli però il suo cortocircuito personale.
Per un ipocondriaco come me, rimane impressa la mini storia di quando Gentile ha l’impulso un po’ velleitario di iscriversi a un corso di violino e si ritrova terrorizzato di avere la tubercolosi perché un compagno di corso melodrammatico lo avvisa di averla e di essere contagioso. Gentile inizia dunque a vivere nell’apparizione della malattia, e intervalla questo momento di pathos proiettivo alla degustazione di certi cocktail milanesi il cui mixologist propone un ragionamento su come il senso del gusto sia talmente rozzo, rispetto all’olfatto, che due essenze diverse abbinate allo stesso cocktail sono capaci di produrre due esperienze completamente diverse. È uno dei tanti intrugli di esperienza e trivia di un libro felice e spudorato. La premessa di questo accumulo è il bisogno di rendere attiva l’esperienza: “Non sempre le esperienze coincidono con le apparizioni. Ogni esperienza genera un mutamento? Sì. Ogni esperienza genera un mutamento consapevole? No. Siamo fermi sul divano e ci sembra di non fare assolutamente nulla. Sta succedendo qualcosa? Sí”. Da lì all’apparizione qual è il passo? “Le molecole nel nostro corpo non sono immobili. A farci caso, un lontano prurito tocca il mignolo del piede. Se non ne siamo consapevoli, tuttavia – e se cioè non siamo attenti a quanto sta accadendo – la possibilità che quest’esperienza di mutamento non sia consapevole è piuttosto alta”.
Ci invita a esercitarci a trasformare le esperienze non solo in mutamento ma in mutamento consapevole. Se negli ultimi tempi si è molto parlato di come un’astratta proposta di meditazione mindfulness scevra di ogni critica al sistema non faccia che renderci schiavi più funzionali, qui possiamo fare invece l’esperienza di una penna spirituale che propone forme di consapevolezza non da pausa caffè ma da vita radicale attraverso l’arte.
È una fortuna che questo libro non finga di parlare di qualcosa di utile. Che mantenga quel sorriso da Buddha di chi non ha bisogno di dimostrare la maturità e l’intelligenza della propria proposta confezionandola per un pubblico che la vuole predigerita (il predigerito è uno dei problemi principali dell’ultima stagione di saggistica e memorialistica, i libri dove tutto scorre perfettamente). Gentile muove la penna come uno muove il corpo nei primi anni di Yoga: perdendo le inibizioni proprio per la consapevolezza di non poter condurre il gioco, di dover lasciarsi portare verso qualcosa dalle circostanze e non dalla volontà, come se la volontà dovesse diventare ancella della consapevolezza invece che dell’azione. Perché in fondo la ricerca di apparizioni come si può raccontare? Goffamente, illustrando goffamente un periodo della vita fatto di ricerche. Queste ricerche assomigliano alle azioni sconclusionate di un investigatore pasticcione. Nel libro, dicevo, Gentile si iscrive a un corso di violino: magari lo fa per diventare un pessimo violinista come Sherlock Holmes.
A forza di provocare il cosmo in cerca di quei frammenti luccicanti capaci di mostrargli la via, Gentile si ritrova, con il libro quasi finito, in mezzo alla pandemia, e la accoglie subito chiamandola “grande irradiatore di apparizioni”. La pandemia è capace di moltiplicare le apparizioni: “I pensieri della mente che dicono colpirà mia madre, arriverà l’apocalisse, perderò il lavoro, non andrò mai più al cinema e via dicendo”. Ma “a differenza del digitale” (da cui era partito il libro: il video snuff delle due ragazze), “una pandemia ci proietta, nella sua natura più intrinseca, in una molteplicità possibile di apparizioni senza sovraccarico”. Senza cioè il sovraccarico dello scroll, della slotmachine emozionale-neurale-economica dello scroll.
Mi piace pensare che qualcuno, davanti a un pezzo che gli consigli questo libro, si dica: questo libro è fuffa, sono solo chiacchiere, non mi pare che parli di niente. Lo scrivo perché negli ultimi anni, insieme alla moda del memoir e all’espansione dell’autobiografico, si è diffusa in certe nicchie di lettori forti l’idea che la letteratura debba essere qualcosa di molto tangibile, spendibile, libri modulari che non sembrano innestarsi in nessun grande pensiero dell’umanità e si possono quindi combinare insieme in delle reti di facile consumo: se ti piace leggi anche… Oggi, specie nella controcultura, un libro in vendita parla di questo o quello, dev’essere chiaro, non ci deve far perdere tempo, non ci deve far viaggiare. È un libro new weird? Be’, che lo sia in un modo perfettamente predigerito. Chiaramente, il tipo di lettore soddisfatto di questo stato di cose si sta precludendo la possibilità di incappare in qualsivoglia apparizione letteraria, e si aspetta dal libro la stessa affidabilità che un tempo i signori nei caffè si aspettavano dai quotidiani. “Dovremmo dunque parlare ora dell’apparizione in letteratura”, scrive a un certo punto Gentile, proponendo di trattare la letteratura come esperienza artistica. (Non, aggiungo io, come la versione psichedelica di una lenzuolata di Scalfari d’annata. Ma come esperienza artistica in costante flirt con il vuoto.) Perché i testi “sono singhiozzi, mormorii, sono fatti di voci e ombre, di attimi e di respiri. Ogni respiro è identico all’altro e infinitamente diverso al tempo stesso. Anche i testi, come i respiri, si sfilacciano, cedono, dicono addio, vanno in un’altra direzione”.
Per dirlo ancora meglio, Gentile si affida all’asfittica Favoletta di Kafka sul topo che dice “il mondo diventa ogni giorno più stretto. Prima era così largo che mi faceva paura, correvo ed ero felice di vedere finalmente muri a destra e a sinistra in lontananza, ma questi lunghi muri si avvicinano tra loro così in fretta che sono già nell’ultima stanza e lì nell’angolo c’è la trappola nella quale cadrò”. Allora il gatto, che lo segue, gli propone di invertire la rotta, cambiare direzione, il topo ascolta e gli finisce in bocca. “La scrittura”, dice Gentile, “è quell’altra direzione”. La scrittura è finire in bocca al topo pur di non finire schiacciati dalla trappola.
Cosa significa, per noi, oggi, questa favoletta?
Assolutamente niente, il niente più completo.
Aldo Grasso sul “Corriere della Sera”, 30 dicembre 2020
“Non c’è vita umana senza apparizioni. Per essere però consapevoli di più apparizioni possibili non si può che rovesciare tutto: per contemplare non basta stare fermi, immobili. E’ necessario costruire uno spazio interiore e rimodellarlo giorno dopo giorno. Andare incontro allo shock dell’ignoto. Contemplare non è stare fermi e attendere il mondo: è andare incontro al mondo, espandere il proprio templum e, parallelamente, aumentare la consapevolezza. La contemplazione è un’importante architrave dell’apparizione: osserva il mondo, dunque osserva te stesso, dunque vivi. Un’apparizione può mutare talvolta solo impercettibilmente il flusso degli eventi. A seguito di un’apparizione, le sensazioni che proviamo sul nostro corpo generano un cambio di direzione, una virata o un’accelerazione. Senza sensazione non c’è apparizione. Senza sensazione non c’è essere umano. Che cos’è quella malinconia per il cadavere del cane? Un peso sullo stomaco, un brivido dietro la schiena, un sussulto del respiro. Che cos’è quella sensazione di disagio per la rottura della caldaia? Un prurito, una sensazione di calore, una sensazione di pesantezza. Un’apparizione porta mutamento. Le apparizioni si insinuano ovunque: come microbi si nascondono nella flanella dei cuscini. Dobbiamo ringraziarle. E’ grazie a loro che ci sentiamo vivi”.
Questa lunga citazione è necessaria per capire cosa intende Andrea Gentile per “apparizione”, quell’avvenimento improvviso e inatteso che cambia la prospettiva con cui guardare il nostro stare al mondo. Nel suo ultimo libro, che si intitola appunto Apparizioni, l’autore ne redige un inventario: apparizioni personali, come quelle percepite durante un concerto dei Muse o in un viaggio in Estremadura; apparizioni provate da altri, come quella dei tre giapponesi in Australia che, seguendo il gps, sono finiti nell’oceano in un momento di alta marea. Ma apparizioni sono anche l’interiorità di Franz Kafka e Robert Walser; un cetriolo insopportabile in un hamburger mangiato a Manhattan; i New York Knicks contro i Milwaukee Bucks al Madison Square Garden; due amiche che muoiono in diretta su Instagram mentre bevono alla guida di una Bmw o il primo lungometraggio animato della storia: The Adventures of Prince Achmed di Lotte Reiniger.
Le apparizioni finora sono state un tema di ambito prettamente religioso. Esse costellano la Bibbia e strutturano la Rivelazione stessa. Dio parla e appare al patriarca Abramo, a Mosè, ai profeti, a Cristo, agli apostoli Pietro e Paolo; insomma, da un capo all’altro delle Scritture. Le apparizioni del Cristo risorto sono il culmine e il compimento del Vangelo. E, come insegna l’apostolo Paolo, sono il fondamento della fede. In particolare, è molto ricca la tradizione delle apparizioni mariane che, secondo la Chiesa cattolica, “consistono in vere e proprie visioni di Maria che una o più persone hanno avuto in luoghi o tempi differenti”.
Le apparizioni di Gentile sono innanzitutto laiche ma non per queste meno dense di mistero, di incantamento e di straordinarietà. E qui sta racchiuso il fascino di questo libro così inusuale per il panorama letterario italiano: non è un saggio, non è fiction, non è un manuale di autocoscienza. Si presenta piuttosto come un viaggio interiore alla ricerca del presagio di quegli istanti in cui un’illuminazione cambia la nostra percezione della vita. E se una certa callosità d’animo ci impedisce di avvertirli, è come se ci negassimo una nuova dimensione conoscitiva, è come se la vita fosse priva di straniamento, è come se le cose ai nostri occhi e alla nostra mente si appiattissero e non avessero più dimensioni.
Gentile individua, fra gli altri, due ambiti in cui le apparizioni trovano l’alfa e l’omega: il campo artistico e il mondo digitale. Nell’esperienza estetica, nella fruizione dell’opera d’arte, non si è asserviti ai bisogni della volontà, non si vuole questa o quella cosa, ma si diviene puro conoscere, si guarda e si contempla un oggetto nella sua assolutezza: “La letteratura, l’arte, il cinema, la musica vivono di apparizioni. Un’opera d’arte è tale quando genera un cambiamento nel nostro presente. Sul nostro corpo. Un’opera d’arte è tale quando è una meditazione”.
Fino all’avvento delle grandi tecnologie, l’uomo cercava di dominare la natura, evitando più facilmente i rischi che possono venire da essa. Adesso, collaborando più o meno consciamente con macchine che non conosce a fondo, che comunque non domina, è lui che immette rischi attraverso le sue decisioni e le sue ossessioni, passando moltissimo tempo davanti ad uno schermo: “Le apparizioni, per essere tali, hanno bisogno di vuoti, e il digitale è un mondo troppo pieno. Il nostro cervello è prosciugato. Se andiamo incontro a un sovraccarico di apparizioni, non c’è apparizione possibile: non saremo più in grado di guardarla”.
La prosa di Gentile, così sorvegliata ma così altrettanto colma di sensibilità, ribadisce a ogni passo un insegnamento del Talmud di fronte allo shock dell’ignoto: noi non vediamo le cose nel modo in cui sono. Le vediamo nel modo in cui siamo.
Giovanni Petta su “Il bene comune”, 11 gennaio 2021
Si intitola «Apparizioni» la nuova opera di Andrea Gentile, scrittore nato a Isernia e da tempo lontano dal Molise per rivestire ruoli importanti nel mondo dell’editoria nazionale.
Le “apparizioni” di Gentile, esplicitate in una forma insolita ma efficace di saggio in prima persona, sono i momenti di consapevolezza che rendono viva la vita, che rendono reale la realtà, che rendono eterno il tempo, che danno senso all’esistenza dell’uomo.
In un libro importante della prima parte del secolo scorso, “Frammenti di un insegnamento sconosciuto”, Ouspensky raccontava gli otto anni vissuti come discepolo di Gurdjieff e sottolineava l’importanza del “ricordo di sé” nella teoria del suo maestro: “Voi non vi ricordate di voi – avrebbe detto Gurdjeff in una delle sue lezioni – Voi non sentite voi stessi, voi non siete coscienti di voi stessi. In voi qualcosa osserva, come qualcosa parla, o pensa o ride; voi non sentite: io osservo, io constato, io vedo. Tutto si constata da solo, si vede da solo… Per arrivare a osservarsi veramente occorre innanzitutto ricordarsi di se stessi (…) Solo i risultati ottenuti mentre ci si ricorda di se stessi hanno un valore”.
A un secolo di distanza, Andrea Gentile mette a punto un’osservazione della contemporaneità che sembra parallela a quella del pensatore armeno. “L’apparizione – scrive Gentile -, per essere tale, genera un mutamento. Affinché un’apparizione viva in tutta la sua forza, sono necessarie alcune condizioni preliminari. È necessaria, innanzitutto, la possibilità di una consapevolezza (…) Tentare, in rari casi, di essere noi stessi l’atto di osservare. Essere comunque il più possibile presenti”.
Gurdjieff elencava quattro stati di coscienza e nel quarto, il più elevato, quello obiettivo, “l’uomo può vedere le cose come sono. Talvolta, negli stati inferiori di coscienza, egli può avere dei barlumi di questa coscienza superiore (…) è il risultato di una crescita interiore e di un lungo e difficile lavoro su di sé”.
Superando queste vicinanze – tra le “apparizioni” dell’uno e dell’altro, punti di verità cercati simili che potrebbero essere maggiormente approfondite anche per concetti come quelli di “choc addizionale” o di “centro di gravità permanente” o, ancora e addirittura, per l’atteggiamento estremamente “laico” di tutte e due le visioni -, c’è da dire che Gentile confronta quanto afferrato, con l’osservazione e il pensiero, con la realtà dei nostri giorni così tanto diversa da quella del secolo scorso per la pervasione della tecnologia digitale.
Prevedere attraverso gli algoritmi sarà la nostra realtà futura? E l’arte? Qual è il suo ruolo oggi? “Se il compito di un’esperienza artistica – scrive Gentile – è quella di simulare la realtà, l’unica esperienza artistica che ci resta è la realtà. L’algoritmo replica il mondo. La letteratura è il nuovo mondo. L’algoritmo non conosce il vuoto; con il vuoto non esiste. La letteratura vive nel vuoto”.
Cosa può significare la frase di Seneca – “Il tempo? Non è poco, ma ne sprechiamo tanto” – o il richiamo a “l’essere presenti a se stessi” di Gurdjieff se non che il tempo dell’esistenza dell’uomo non va calcolato considerando gli anni di vita anagrafica ma i momenti di consapevolezza? Bisognerà dunque addizionare i momenti in cui si è presenti a ciò che si sta vivendo e sottrarre quelli in cui ci si è comportati da automa o, per dirla ancora con Gurdjieff, da “macchina”.
Il libro di Andrea Gentile apre nuove possibilità di trovare risposte alla domande ontologiche che da sempre assillano l’umanità. E se all’origine, privo di strumenti e laboratori, l’uomo trovava quelle risposte nel mito, cioè nel racconto; se, successivamente, tali risposte sono state cercate nella scienza; sembra ora, agli inizi del terzo millennio, in una imprevista tautologia, essere tornati alla necessità di affidarsi allo spazio, alla meditazione, alla contemplazione delle “apparizioni”. All’arte.
“Apparizioni” costringe alla riflessione, stimola a rimettere tutto in discussione. Nessuna censura nei confronti del nuovo e del digitale. Un invito, tuttavia, a considerare anche tutto il resto. Una riproposizione sensata, perché sostenuta da argomentazioni efficaci, di percorsi logici tenuti in scarsa considerazione negli ultimi trent’anni. Se solo il quindici per cento dei fenomeni che accadono nelle nostre vite possono essere inserite in un sistema di equazioni e controllate in questo modo, possiamo ancora considerare la letteratura, o l’arte in genere, un passatempo? Non sono anche, queste attività umane, strumenti di conoscenza del reale, da considerarsi altrettanto efficaci della chimica, della matematica, della fisica, dell’informatica?
Alessandro Mantovani su “Il Foglio”, 10 febbraio 2021
Se per “fantasma” intendiamo qualcosa che si manifesta visibilmente nella nostra realtà, influenzandola con la sua presenza senza appartenere a una dimensione fisica o concreta, potremmo pensare che il mondo, dominato da elementi come il digitale o l’economia, sia zeppo di queste forse immateriali. Ed è in mezzo ad esse che si colloca lo sguardo di Andrea Gentile nel suo libro Apparizioni. Né saggio, nè memoir, né romanzo, Apparizioni si presenta come un libro ibrido, spassionatamente disinteressato all’etichetta da porsi, in virtù dell’urgenza investigativa che lo costituisce. A metà tra un flaneur d’altri tempi e un impacciato detective, Gentile si muove tra spazi fisici quali le strade o i locali delle metropoli occidentali (Milano in testa) e una serie di aneddoti, ricordi e riflessioni tanto casuale e allo stesso tempo calzante quanto possono esserlo solo le analogie create dalla mente. Il tutto sempre esaminato alla luce del concetto di “apparizione” e del rapporto che tale visione conduce con l’osservatore. Ma cosa è un’apparizione? “Un’apparizione può avere molteplici forme. Generare straniamento […], plasmare l’asse lineare degli eventi, […] oppure modificare il nostro stato d’animo. […] In ogni caso, l’apparizione, per essere tale, genera un mutamento”. Tutto questo, però, continua Gentile, non è possibile senza una disposizione alla contemplazione da parte di chi osserva. La vista è il senso centrale, dunque, di una scrittura che diviene meditazione su ciò che si manifesta e ciò che scompare davanti ai nostri occhi, indirizzando il testo su una pluralità di tematiche sociali ed esistenziali; dal ragionamento intorno alla morte – vero ritornello sotteso a tutto il libro -, alla riflessione sul corpo come sede di apparizioni, passando per aspetti di sociologia del digitale (come il sovraccarico visivo indotto dai social o l’interazione uomo-macchina), considerazioni metaletterarie, per giungere anche alla pandemia (definita “grande irradiatore di apparizioni”). Sia a livello personale che collettivo, l’apparizione si configura sempre di più come l’attraversamento di una soglia a cui la mente umana non può porre rimedio: “Come sempre, nel flusso della sotria c’è un istante: quello in cui, per esempio, il primo robot entra in casa di una persona […] e poi c’è l’altro istante, l’istante prima, quello senza robot”. Contro il contemporaneo appiattimento del tempo sul presente, Gentile recupera una metrica profonda e trascendente, percorsa in maniera spudorata, contro i gusti premasticati a cui è abituato il lettore, ricordando come gli aspetti più fertili della vita e della letteratura si celino nei guizzi dei fantasmi di cui è gravida la nostra realtà.
Dario De Marco su “La ricerca. Loescher”, 13 febbraio 2021
Vi capita mai di avere dei falsi ricordi? Certo che vi capita, capita a tutti, la mente lavora in continuazione creando la realtà, e ricreando il passato. Tra tutti i falsi ricordi, ce ne sono alcuni di natura particolare, in quanto contengono degli anacronismi evidenti: sono i più rassicuranti, perché li riconosciamo subito come falsi; sono i più inquietanti, perché continuano a sembrarci veri. Io per esempio ho nella mente l’immagine vivida del passeggino di mia figlia mentre lo spingo per le strade affollate di Marrakech: ma in Marocco ci sono andato alla fine del secolo scorso, mentre lei sarebbe nata solo dieci anni dopo.
Da un po’ di tempo, poi, mi capita di avere dei falsi ricordi pandemici. (Molti, da quando tutto questo è iniziato, hanno dei sogni pandemici; ma evidentemente il virus ha esteso il suo dominio dal sogno all’immaginazione diurna.) Mi ricordo una discussione che ebbi a vent’anni o poco più in un negozio di dischi, a proposito di musica strumentale e musica elettronica, con il gestore di quello spazio angusto, lui con una mascherina nera da cui spuntava la folta barba brizzolata, io con la mia solita chirurgica spelacchiata e maleodorante. Impossibile; vero. Ma la cosa più sconcertante è che insieme ai falsi ricordi pandemici stanno venendo fuori anche dei falsi falsi ricordi pandemici: eventi realmente vissuti che la mia mente, nell’attimo in cui affiorano alla coscienza, istintivamente rubrica come falsi. Mi sembra impossibile, per dire, aver preso un volo intercontinentale, o essere stato pigiato dentro l’anello di uno stadio insieme ad altre novantamila persone (ma davvero ce n’entrano così tante in uno spazio così ristretto?). Mi sono rigirato questi pensieri in testa per settimane. Poi ho letto l’ultimo libro di Don DeLillo: Il silenzio.
Profeta
– Ci troviamo a vivere in una realtà alternativa? L’ho già detto, questo? Un futuro che per il momento non dovrebbe ancora prendere forma?
– Un guasto in una centrale elettrica. Questo è quanto. (…)
– Intelligenza artificiale che tradisce ciò che siamo e il modo in cui viviamo e pensiamo.
– Tornerà la luce, il riscaldamento riprenderà a funzionare, la nostra mente collettiva sarà di nuovo nel punto dov’era prima, più o meno, nel giro di un paio di giorni.
– Il futuro artificiale. L’interfaccia neurale.
Questo libro è un oggetto piccolo e misterioso, pregno di senso e impenetrabile, proprio come il parallelepipedo sottile che porta disegnato in copertina, il monolite della nostra odissea sulla Terra: lo smartphone. È un libro, mi perdoneranno i delilliani, più interessante che bello.
I fatti, se di fatti si può parlare, sono presto detti: all’improvviso tutti gli schermi si spengono, dalla tv ai telefonini fino ai radar degli aerei. Non è un semplice blackout, è il collasso tecnologico: tutto quanto c’è di elettrico ed elettronico ha smesso di funzionare. Questo il sintomo: la causa è imperscrutabile, proprio perché i mezzi di comunicazione sono off. (Se la fine del mondo arrivasse davvero, ce ne accorgeremmo? Me lo chiedo spesso, e mi rispondo di no.) Un gruppo di cinque persone, all’inizio separate, riesce a ritrovarsi nella casa di due di loro, per non vedere la finale del campionato di football americano, il Superbowl. Più perplessi che impauriti, più immobili che esagitati, aspettano riempiendo il silenzio con discorsi e ipotesi.
DeLillo è stato spesso esaltato per la sua capacità profetica, e in questo caso più che in altri. In effetti a leggere certi passaggi sembra, più che fiction, cronaca:
È sempre stato ai margini della nostra percezione. L’interruzione della corrente, la tecnologia che piano piano si dilegua, un aspetto, poi un altro. Ci è già capitato tante e tante volte di assistere a cose simili, in questo paese come altrove, forti temporali, incendi incontrollati, evacuazioni, tifoni, tornado, siccità, nebbia fitta, aria irrespirabile. (…) Abbiamo ancora freschi nella mente i ricordi del virus, della peste, delle code infinite nei terminal degli aeroporti, delle mascherine, delle vie cittadine completamente vuote.
Ehi, ma un attimo: il libro è stato terminato nel marzo 2020, quando il coronavirus aveva già fatto il suo outbreak. Non sembra cronaca, è cronaca. Ma alla fine i discorsi sulle capacità profetiche dei romanzieri sono delle mistificazioni, e sviano dal punto essenziale del discorso. Quello che, più sensatamente, si dice di DeLillo, è che sia sempre in grado di cogliere il senso del tempo. E in questo caso, che sia stato in grado di cogliere il senso del tempo nonostante. Nonostante la tarda età: ha 84 anni, è del 1936, il che tecnicamente non lo qualifica neanche come boomer, ma a pieno titolo come appartenente alla silent generation (ops). Nonostante batta i suoi romanzi su una macchina da scrivere comprata (usata) in un anno talmente remoto che io e la maggior parte di voi dovevamo ancora nascere. Chiediamoci allora: è vero che Il silenzio capta lo spirito del nostro tempo? In senso tecnico e letterale, assolutamente no; in un senso profondo, forse sì.
Se esaminiamo con puntiglio la consistenza delle singole affermazioni su molti temi sfiorati a volo radente nel libro, che sono poi i temi centrali della contemporaneità (intelligenze artificiali, criptovalute, cyberwar…), e se ci mettiamo a fare le pulci ai buchi di sceneggiatura (ok va via la corrente e si spegne la tv, ma perché si spengono subito anche i cellulari?), saremo costretti a concludere che DeLillo legge il mondo come un qualsiasi altro ottantenne sopraffatto dal gap tecnologico: un ottantenne smart, certo, che ha orecchiato delle parole e dei concetti, e li ha infilati nel libro per mostrare che ci sta troppo dentro. Ma se ragioniamo così, facciamo un torto a noi stessi, più che a lui. Il silenzio non è il 6|5 di Laumonier che s’immerge nella finanza algoritmica, non è Essere una macchina di O’Connell con il suo viaggio nel transumanesimo. Non è neanche Chthulucene, nonostante DeLillo e Donna Haraway siano quasi coetanei. Non è niente di tutto ciò, e non vuole esserlo: non ne ha bisogno. DeLillo coglie lo spirito del tempo non in modo analitico, ma sintetico: non come un tecnico, ma come un quivis de populo, anzi come un visionario, uno sciamano.
Teatro
Martin si interroga: “Guardo lo specchio e non so chi è la persona che ho davanti (…) La faccia che mi guarda non sembra la mia. Ma in fondo perché dovrebbe? Lo specchio è davvero una superficie riflettente? E la faccia che vedo io è la stessa che vedono anche gli altri? Oppure è qualcosa o qualcuno di mia invenzione? Sono le pillole che prendo a dare vita a quest’altra versione di me?”.
La forma ci dice qualcosa, ci dice molto. Il silenzio non è solo breve, poco più di 100 pagine. È anche composto da capitoli molto brevi: come ci fa notare Rachel Cooke, autrice di un’intervista sul Guardian (si trova anche in italiano sulla rivista l’Eco del nulla, che ha da poco iniziato una meritoria operazione di selezione e traduzione di longform culturali), «la brevità è evidenziata dalla disposizione del testo sulla pagina che tende a ricordare graficamente gli ultimi lavori teatrali di Edward Albee».
(Nella stessa intervista, è proprio DeLillo a rivelarci le ragioni compositive di questa scelta formale. Parlando della suddetta macchina da scrivere dice: «La cosa che mi piace di più è che ha i caratteri grandi, così riesco a vedere chiaramente le parole sulla pagina e a trovare una connessione visiva tra le varie lettere che compongono le parole, e tra le varie parole che compongono le frasi: questo per me è stato sempre molto importante (…) E così ho deciso: un solo paragrafo per pagina per consentire agli occhi di impegnarsi appieno con il testo». Quindi nell’originale inglese ci sono assonanze e rimandi grafici, che inevitabilmente andranno persi, almeno in parte, nonostante la consueta magistrale traduzione di Federica Aceto.)
Ma il rimando al teatro è importante anche per capire il contenuto. Quando l’ho letto ho pensato: ecco perché! Ecco perché i personaggi sembrano galleggiare nel vuoto, tra interazioni deboli e pensieri esposti in forma oracolare. Non è un romanzo: è una pièce teatrale! Non c’è un vero e proprio plot, ci sono quasi solo dialoghi, intervallati da brevi descrizioni (come le note tra parentesi all’inizio di ogni scena?). Non ci sono fatti, ci sono solo discorsi sui fatti. Interpretazioni > fatti: in questo senso, sì, DeLillo è postmoderno.
Cecità
La gente ricomincia a farsi vedere nelle strade, con una certa cautela all’inizio, e poi sulla scia di un senso di liberazione, tutti camminano, guardano, si interrogano, donne e uomini, drappelli casuali di adolescenti, tutti che si accompagnano vicendevolmente mentre attraversano l’insonnia di massa di questo tempo inaudito. E non è strano che certi sembrino aver accettato questa sospensione, questo guasto? Forse è qualcosa che hanno sempre desiderato a livello subliminale, subatomico?
Ma facciamo un passo indietro, per provare a rispondere alla domanda: come mai questi personaggi si comportano in maniera così strana? Ripartiamo dai fatti. Anzi dal fatto: l’unico di cui abbiamo conoscenza, certezza. L’imponderabile, il cigno nero, quello che ha messo il tempo fuor di sesto. Eppure quello di cui s’ignora tutto, tranne il fatto che è avvenuto. È un guasto locale? Una momentanea interruzione del servizio (ci scusiamo per la – )? È un attacco terroristico? La terza guerra mondiale? L’invasione degli alieni? Le macchine che prendono il potere? La pura e semplice apocalisse? Questo DeLillo non lo dice. Questo, io sospetto, DeLillo non lo sa.
Neanche i cinque protagonisti, ovviamente, lo sanno. Ma il modo in cui reagiscono ci lascia una leggera vertigine. Non è quello che faremmo noi, pensiamo. O almeno non è quello che fanno i personaggi dei tanti film e libri apocalittici che abbiamo interiorizzato; non è quello che fanno, per citare uno dei più belli e giganteschi what if della letteratura tutta, i protagonisti del romanzo Cecità di Saramago (quando ho letto la prima volta che il titolo dell’ultimo libro di DeLillo era Il silenzio, subito ho pensato a Cecità, non so perché, e soprattutto non capisco perché non riesco a togliermi dalla testa questo parallelo). Non si fanno prendere dal panico, non si precipitano a controllare se per esempio esce ancora acqua dal rubinetto, non si affrettano a scappare o a preparare un kit di sopravvivenza. Sulla paura, sembra prevalere lo sconcerto; sullo sconcerto, la rassegnazione.
Quasi come se non ci credessero davvero, a quello che sta succedendo, e aspettassero che da un momento all’altro l’anomalia rientri. Oppure, al contrario, come se fosse successo quello che inconsciamente hanno sempre desiderato. A sembrare impossibile, d’improvviso, non è più quello che accade, ma quello che è accaduto fino a un attimo fa: la cosiddetta “realtà di prima”. Un falso ricordo.
Anche la realtà che stiamo vivendo – questo new normal a cui ci stiamo abituando, anche quando non vorremmo – un giorno ci sembrerà assurda, diventerà un falso falso ricordo?
Apparizioni
Il mutamento di traiettorie economiche. Il peso dell’Europa. La verifica dei poteri. L’eventuale stravolgimento dell’assetto geopolitico. Le ipotesi di radicali modifiche dei nostri comportamenti abituali. La storia fa il suo corso, la vita fa il suo corso, e cambia istante dopo istante. Una pandemia registra senza dubbio un mutamento. Una mascherina, per esempio, può generare apparizioni: nuove sensazioni sulla pelle. Quel prurito sul naso, che è diverso da ogni altro prurito del naso. L’odore plastico del polipropilene frammisto all’odore del proprio respiro. Un rimbalzo olfattivo che rimanda alla morte. Sarà sempre una madeleine ma poi moriremo e morirà la madeleine.
Una pandemia è un grande irradiatore di apparizioni. Moltiplica le apparizioni – i pensieri della mente che dicono colpirà mia madre, arriverà l’apocalisse, perderò il lavoro, non andrò mai piú al cinema e via dicendo –, ma non genera sovraccarico.
A differenza del digitale, una pandemia ci proietta, nella sua natura piú intrinseca, in una molteplicità possibile di apparizioni senza sovraccarico. Ogni momento ha la sua validità. Ha la sua presenza. Siamo di fronte alla pura vita: la paura di morire. Di tutti. Ciò che prima è dato per scontato, e in qualche modo celato, ora, grazie alla pandemia, è nitido. La paura di morire entra in noi pubblicamente, avallata dai telegiornali. Il presidente del Consiglio ti ricorda: morirai. Morirai. Chiudi gli occhi e morirai.
Un libro piccolo e strano, fatto di brevi capitoli scritti su argomenti divaganti e con approccio visionario. L’ho già detto? Ma ora non è de Il silenzio che sto parlando: è di Apparizioni, un indefinibile e bellissimo saggio di Andrea Gentile. Pieno di intuizioni e disvelamenti attorno a un concetto, quello appunto di apparizione. Scritto con una densità paurosa – su ogni frase si potrebbe riflettere per settimane – eppure con una fluidità che rende ogni passaggio comprensibile, e piacevole. Saggio che si legge come un romanzo – formula trita ma in questo caso verissima – proprio come quello di DeLillo è un romanzo che va interpretato come un saggio. E forse proprio Apparizioni può essere uno strumento, l’ultimo che proverò a usare.
A un certo punto Gentile dice che i social sono il dio del presente. In un duplice senso: sia perché hanno preso il posto di Dio nell’epoca attuale. Sia, soprattutto, perché hanno occupato uno spazio da cui persino Dio è sempre rimasto fuori: il presente, il qui e ora, l’attimo. Nelle nostre preghiere, fa notare acutissimo Gentile, ci rivolgiamo a Dio per il passato (“Perdona il peccato che ho commesso ieri”) e per il futuro (“Fammi la grazia di guarire domani”), ma il presente è inattaccabile, è nostro. Ora, è di internet. Il telefonino, e più ancora la rete, e più ancora i social network, sono dei generatori continui di apparizioni. Sarebbe un bene, se concordiamo con Gentile sul fatto che l’apparizione è un’esperienza da ricercare, è ciò che dà senso al vivere. Sarebbe un bene ma non lo è, perché le apparizioni da social generano sovraccarico, eccesso: ripetizione dove dovrebbe esserci unicità, distrazione dove dovrebbe esserci concentrazione, assuefazione dove dovrebbe esserci meraviglia.
Andrea Gentile parla poi della pandemia, e dice che come il digitale è un generatore di apparizioni, ma al contrario del digitale senza sovraccarico. Forse per questo i personaggi di DeLillo sembrano così stranamente a loro agio: in questo tempo sospeso, assurdo, in questa condizione temporanea ma forse no, loro giustamente non cercano una spiegazione, ma un’apparizione.
O forse, più semplicemente, è come diceva Borges (se state a sentire me, è più o meno sempre come diceva Borges). Il quale nel primo racconto de L’Aleph – una storia in cui la presenza di trogloditi filosofi che non muoiono mai è la cosa meno strana – fa dire al protagonista, quando si trova davanti al primo ma non al più spettacolare dei colpi di scena: «Ci abituiamo subito alle realtà più assurde, forse perché intuiamo che nulla è reale».
Contare i gradini. Una cosa che facevo da bambino. Gli scalini erano diciassette. Ma volte il numero cambiava, o così mi sembrava. Forse perché contavo male? Oppure perché il mondo si restringeva e si allargava? Ma tutto questo succedeva tanto tempo fa. Oggi mi dicono che è difficile immaginarmi da bambino. Mi chiamavo Max? (…) Un bambino di nome Max. E di colpo eccomi qua, un padre, un uomo che per lavoro va nei grattacieli di lusso a ispezionare gli scantinati.
Elisabetta de Dominis in “La Voce di New York”, 10 aprile 2021
L’apparizione è una sensazione perché è qualcosa che il corpo percepisce. Implica una contemplazione e la disponibilità ad andare incontro all’ignoto. La capacità di sospendere i pensieri ci permette di vedere un’apparizione; avere un’illuminazione. Tuttavia in latino contemplatio è sinonimo di meditatio, perché contemplare è un processo che coinvolge anche la mente, fa meditare: senza consapevolezza non si ha apparizione. Questo in sintesi è quanto sostiene Andrea Gentile in Apparizioni.
Viviamo nella società dell’apparire dove il cogito ergo sum cartesiano è stato soppiantato dall’appareo ergo sum. Tutti aspirano ad apparire, nel senso di divenire visibili: fa la differenza essere qualcuno o rimanere nessuno. L’importante è apparire in pubblico, pubblicare, non importa se si appare veri o se si ha solo l’apparenza di… Ciò che conta è figurare molto, essere appariscenti: se ostendere, ostentare, che può acquisire il significato di offerre. Chi si espone finisce per offrirsi e chissà dove finisce…
Eppure, la massa vuole essere uguale a se stessa adottando i medesimi canoni estetici e comportamentali; il concetto di unità contraddice l’aspirazione a distinguersi per essere visto, notato. Inoltre “Tutto nei social è troppo presente” scrive Gentile. Mentre un’apparizione può provenire anche dal passato. Pertanto l’apparizione di cui parla l’autore non ha nulla a che fare con la visibilità che persegue la massa per avere un istante di gloria mediatica.
Cosa dunque significa contemplare? Secondo Gentili contemplare non è stare fermi, è andare incontro al mondo, espandere il proprio templum. Il tempio era concepito dai Latini come lo spazio celeste e al contempo rappresentava lo spazio del cielo tracciato dall’augure col lituo (bastone arcuato) entro il quale egli interpretava il volo degli uccelli per cogliere gli aruspici. Ecco allora che templum significava anche lo spazio abbracciato dallo sguardo, la veduta, la distesa, lo spazio libero.
Tempus, il tempo, ha la medesima radice temp-. Gli dei avevano il dominio del tempo nel tempio perché determinavano tutto ciò che l’uomo vedeva. Come attesta la frase: deus is, cuius hoc templum est omne quod cospicis: quel dio che ha per dominio tutto ciò che vidi.
Quando gli dei apparivano era come se fossero presenti; infatti i Latini traducevano l’apparizione degli dei con deorum praesentia. Una strana apparizione era una res mirabilis, una cosa che destava meraviglia. Ma visum era una visione che si aveva durante il sogno: in somnis imaginem alicuius video, che significa: mi appare nel sogno qualcuno. Mentre se qualcosa mi appare nella fantasia e mi sembra presente si diceva: aliquid mihi adesse videtur.
Si può quindi avere una contemplatio, contemplazione, che proviene dagli occhi o dalla mente. Certo è che quando io contemplor, non sto lì imbambolato ma guardo attentamente, considero, osservo. Da qui a disprezzare, contemptor, il passo è breve; in effetti cambia solo una consonante. Scrive Seneca: minime sui contemptor, per nulla disposto a far poco conto di sé. E ritorniamo alla società dell’apparire.
Invece l’apparizione, come dicevamo, è illuminazione. Ma può ben presto trasformarsi in una illusione ossia una falsa imago, un errore che proviene dagli occhi, oculorum error, ma pure dalla mente, mentis error. Quando mi illudo, mi inganno, me fallo. Questo perché ripongo false speranze: quam inanes spes! L’aggettivo illusorio si traduce con fallax, vanus, inanis, falsus.
Piccole, ma raffinate differenze che hanno un grande significato sia di percezione che di differenziazione delle sensazioni, utili per averne consapevolezza. Ma si possono scoprire solo consultando il vocabolario della lingua latina Castiglioni Mariotti, certo non Wikipedia.
Lorenzo Alunni su “Lavoro culturale”, 18 maggio 2021
No, i libri non dialogano fra loro. Ma questi tre, stavolta, sì. Un montaggio.
Quando vi dicono dei libri che dialogano fra loro, non credeteci. I libri non dialogano fra loro. A volte un libro non dialoga neanche con sé stesso, figuriamoci, e neanche i capitoli fra loro. Ma stavolta credeteci. Lasciatemi tentare di far dialogare fra loro tre opere che, senza nessuna ragione particolare se non i nostri ordinari e talvolta bislacchi percorsi di lettura, mi è capitato di leggere in questi ultimi due o tre mesi: Underland. Storie dal tempo profondo, di Robert Macfarlane, tradotto da Duccio Sacchi (Einaudi), Un mondo a portata di mano di Maylis De Kerangal, tradotto di Maria Baiocchi (Feltrinelli), e Apparizioni, di Andrea Gentile (nottetempo). Peraltro, ho letto questi libri fra febbraio e aprile e, appena finito di farlo, mi sono accorto per caso che sono stati tutti e tre pubblicati nei primi giorni di ottobre 2020. È una coincidenza con una qualche rilevanza e significato? No. E per questo va presa sul serio e indagata.
Underland, di Robert Macfarlane, è un libro che reagisce a una delle anomalie e mancanze più diffuse nella nostra percezione dello spazio geografico: lo squilibrio verso una visione orizzontale del mondo che ci circonda, a scapito di una concezione parimenti verticale e profonda. È proprio su alcuni luoghi rappresentativi di quella dimensione verticale del mondo che Macfarlane, in questa sua recherchedel tempo profondo, punta l’attenzione in questa raccolta di reportage sotterranei: dalle sepolture preistoriche in Inghilterra alle catacombe parigine, dai fiumi sotterranei del Carso alle miniere abbandonate, dai laboratori scientifici sotterranei alle reti di funghi delle foreste, e così via. In una delle parti più appassionanti del notevole Underland, Macfarlane racconta di una sua visita solitaria in una grotta, raggiungibile o dal mare sempre burrascoso o dopo un’impervia camminata, dell’estremo nord della Norvegia. Lì, «tra i settemila e i duemila anni fa, furono scolpite sulle rocce spianate dai ghiacciai più di seimila immagini – in gran parte petroglifi – raffiguranti renne, orsi, esseri umani, scene di caccia e aurore boreali».
Nel suo bel romanzo Un mondo a portata di mano, Maylis De Kerangal racconta di Paula Karst e dei suoi studi all’Istituto superiore di pittura a Bruxelles. È lì che Paula impara la tecnica del trompe-l’œil, che affinerà lavorando per esempio negli studi di Cinecittà e in Russia. Ed lì che, oltre il trompe-l’œil, Paula impara anche ad amare il suo collega Jonas, benché l’amore si riveli talvolta una tecnica di trompe-le-cœur. Sarà proprio Jonas a passarle una commissione che non può accettare: la realizzazione della fedelissima copia delle pitture parietali della grotta di Lascaux, per il museosorto proprio accanto al sito originale, chiuso al pubblico. Come in Underland, si parla dunque anche di grotte, di pitture parietali e di visioni.
C’è infine Apparizioni, di Andrea Gentile, un saggio su quelle scintille di visione e d’inconsapevole consapevolezza che, inattese e nascoste, sfavillano in certi momenti densi nella nostra mente e nel nostro vissuto quotidiano, trasformando tanto quello stesso quotidiano quanto noi stessi. Oltre a una lirica teoria dell’apparizione, il libro consta anche in un percorso fra opere d’arte, narrazioni e momenti di contemporaneità a noi stessi e al nostro mondo là fuori – quasi dei provvisori ed euristici momenti di resistenza all’ethos dell’inattualità – che diventano a loro modo addestramento all’apparizione e tentativo di ampliamento della predisposizione e delle possibilità di viverne. E Apparizioni finisce per farsi apparizione in sé.
Ecco, nel leggere questi tre libri – fra grotte, visioni parietali e apparizioni dal tempo profondo – mi è parso di sentirli dialogare fra loro, forse alle mie spalle, e non resisto alla tentazione di verificare se per caso da quei loro comizi privati non spuntasse qualcosa d’interessante. Lo faccio attraverso un breve montaggio di alcuni passaggi dalle tre opere: Underlandin tondo, Un mondo a portata di manoin corsivo e Apparizioniallineato a destra. Gli a capo sono trasformati in “/”, come si fa con le poesie.
Mi fermo sulla soglia della grotta ed esco all’aria aperta. Piove più forte adesso. Il paesaggio ritorna se stesso: prima luminosità, poi colore. Acqua che si infrange, l’eco dell’onda nella cavità alle mie spalle. Rifaccio la strada lungo la baia, verso i resti dell’insediamento. / Ho la netta e assurda sensazione di essere osservato.
Ma tu, la vera grotta, l’hai vista tu? Paula interroga bruscamente come sempre sotto l’effetto dell’emozione, e l’altra, soddisfatta, sì, per venti minuti. Ma quei venti minuti le avevano cambiato la vita. / Aveva vissuto con i pittori della Preistoria, si era messa nei loro occhi; un contatto durato venti minuti dopo ventimila anni.
Che cos’è un’apparizione?
Dovevano condurre vite brevi e difficili, e sembrerebbe ragionevole pensare che un’esistenza così lasciasse poco spazio alla creazione artistica. Eppure quelle figure rosse danzanti esistono.
La grotta è là, nessuno la può vedere ma tutti ci pensano, tutti ci pensano in continuazione.
Un’apparizione, senza dubbio, è generata da una novità o da un ritorno. Venire alla luce, forse da un’ombra. Un’apparizione può plasmare non solo il tempo ma anche lo spazio. Distorcere l’immaginazione. / In ogni caso, l’apparizione, per essere tale, genera un mutamento.
Le pareti della nuova sala rimandano echi e riflessi di luce, e dove cade la luce vedo nuove scene provenienti dal mondo di sotto animare la roccia. Sono scene di occultamenti, di ricerche di rifugio, di scoperta: sparse nel tempo e nello spazio ma collegate tra loro da echi inattesi.
Paula ha immaginato la grotta sotto terra, la sua chiusa bellezza, la cavalcata degli animali nella notte magdaleniana, e si è chiesta se le pitture continuavano a esistere quando non c’era più nessuno a guardarle.
(si possiedono le apparizioni? O si subiscono? Si inabissano dentro di noi e vi nuotiamo dentro? O troneggiano come dèi greci nella nostra mente? Vivono anche quando dormiamo? Certo che sì! Vivono anche quando moriamo? Certo che no!).
Le figure attraversano l’ingresso della grotta, e il mondo cambia. La grotta si insinua nella scogliera. Il tempo fa andare in senso inverso lo spazio: più avanzano, più giovane è lo spazio della grotta. Il viaggio nell’oscurità è un viaggio verso il presente.
Un foro profondo, cinque metri, la corda è troppo corta, bisogna saltare nel vuoto, senza mollare la lampada, è folle ma Marcel salta, quando si rialza e illumina la parete, una creatura appare, un uomo dalla testa d’uccello.
Un’esperienza artistica è un’esperienza estrema fatta di apparizioni. Luogo tranquillo della dismisura. Al centro di ogni tempesta. / Ogni parola una pietra. / Ogni istante un istante.
La scoperta – racconterà l’archeologo Bjerk successivamente – è come ‘una stella cadente’: inattesa, immeritata, sontuosa, e lo lascia con un desiderio travolgente di rivivere ancora un momento così, di essere ancora la prima persona dopo migliaia di anni a posare lo sguardo su queste figure danzanti nel buio.
Quelli che camminano non sono più bambini ma cercano un tesoro – è questa la persistenza dell’infanzia?
Per un’apparizione non abbiamo, non possiamo avere, un apripista, una guida turistica. Neanche dio. Se una tentazione è spesso un’apparizione, è altrettanto vero che non siamo che soli, sempre soli, di fronte alle apparizioni.
E quando riapro gli occhi e guardo di nuovo, ecco là – sì, proprio là, vedo baluginare una linea che non è pura creazione della roccia. Ce n’è un’altra che la incrocia e poi la prima linea si unisce a un’altra linea ancora e là, là, proprio così, c’è un danzatore rosso, appena visibile ma inequivocabile, uno spettrale danzatore rosso che salta sulla roccia. E ce n’è un altro, un altro ancora, qui, ce ne sono almeno una dozzina, sempre spettrali ma adesso presenti, che saltano e danzano sulla roccia, a braccia aperte e gambe larghe, che si muovono e si stendono appena sbatto le palpebre.
In quell’istante, Jacques ha lanciato un grido indicando sulla volta bianca delle forme così potenti che si sono staccate dalle tenebre e fatte riconoscere alla luce delle torce di fortuna, quelle luci ondeggianti che hanno aumentato l’impressione di movimento del corteo animale. Non hanno avuto paura e hanno alzato la lampada davanti alle immagini: un cervo, dei piccoli cavalli, un toro.
La letteratura vive di apparizioni. Spesso le apparizioni giungono al buio.
Figure rosse, invariabilmente rosse, quasi sempre con la stessa forma di base, che saltano e danzano nel buio delle grotte lungo la costa, ormai familiari nel loro profilo e tuttavia ancora misteriose nella loro origini. Ogni volta che le scopre anche il suo cuore fa un balzo e il tempo collassa o instaura una coesistenza con altri tipi di tempo, mentre le figure danzano e tremolano nella luce fioca.
Penetrano in fila nella stretta gola, si lasciano scivolare lungo quel ripido laminatoio, e non è più l’emozione del giorno prima a dominare, la vertigine dello sbalordimento: adesso è l’incanto.
Non è possibile andare alla ricerca di apparizioni. Per mezzo della contemplazione e, più in generale, della consapevolezza, è possibile essere predisposti alle apparizioni, ma le apparizioni sono tali quando appaiono.
Per molto tempo, dopo quei giorni nella grotta dei danzatori rossi, non sono riuscito a scrollarmi di dosso la sensazione di aver lasciato una parte di me nella baia, di aver lasciato una figura sulla riva. è una sensazione intensa che mi accompagna ancora mentre dalle Lofoten mi spingo lungo le coste norvegesi più a nord, fin alla grande isola artica di Andøia nell’arcipelago delle Vesterålen, dove nel mondo di sotto, al di sotto del mare, infuria la battaglia.
Jonas, davanti a quella luce che brucia e diminuisce, immagina che le pitture hanno limitato il tempo di visione dei quattro ragazzi, un tempo di abbagliamento dopodiché si riforma l’oscurità su una traccia mnestica, una presenza come innata, e il desiderio di ritorno che segue.
Così la storia, che vuole sempre le sue verità, di fronte alle apparizioni, cade: le apparizioni sono sempre individuali, ognuno di noi le sente. Non importa affatto il loro tasso di realtà.
Complessivamente queste “grotte dipinte” contengono circa 170 semplici figure stilizzate, a braccia e gambe aperte come se danzassero o saltassero: figure umane per la maggior parte, ma ogni tanto anche di ibridi umano-animali, e in un caso di una mano da sola.
Replicare la grotta è renderla visibile per ritrarla. È farla riapparire. È anche sentirla, come si sente una replica poco dopo la scossa sismica.
Non sempre l’apparizione si presenta come tale. Talvolta è più sottile, emette qualche vibrazione e stop: qualcosa, dentro di te, ti dice che forse, per qualche ragione, questo momento ritornerà, ciò che hai visto riapparirà nella tua mente: è come un grande testo letterario, questa vita. Accade e basta. È contemplazione più che narrazione.
Le mani dei morti premono sulla pietra dall’altra parte e incontrano quelle dei vivi, palmo contro palmo, dita contro dita.
Jonas ha preso il volto di Paula tra le mani e le ha chiesto di immaginare un tempo in cui gli uomini non sarebbero stati altro che un lontano ricordo, un tempo in cui non sarebbero stati altro che miti, leggende, presenze nei racconti delle creature che avrebbero ormai abitato la Terra – chi può credere ancora gli uomini, Paula?
Le apparizioni, come abbiamo visto, possono giungere da tutte le parti: il passato grida aiuto, sempre.
Tutte queste figure sono fantasmi che danzano insieme, e sono un fantasma anch’io, e per tutti i millenni che hanno danzato insieme hanno – abbiamo – condiviso qualcosa.
Allora, colta dal fascio del retroproiettore, filtrata attraverso il calco luminoso della fotografia, tessuta di solchi e vene più chiare, integrata nelle campiture superficiali della pittura, lei stessa scavata di fiumi sotterranei, di gallerie oscure e di camere ornate, Paula si è fusa nell’immagine, preistorica e parietale.
Un’apparizione porta mutamento. Le apparizioni si insinuano ovunque: come microbi si nascondono nella flanella dei cuscini. Dobbiamo ringraziarle. È grazie a loro che ci sentiamo vivi.
Renato Minore su “Il Messaggero”, 30 maggio 2021
Un incidente ripreso su Instagram che inquadra tra un pause e un play ,«il passaggio dalla vita alla morte»; una bambina del tutto insensibile al dolore che fa sanguinare le sue mani; una crepa sulla porta della casa dove si è sempre vissuti; l’idea improvvisamente ossessiva che sia «possibile non esistere».
Sono queste le «apparizioni», qualcosa di nascosto o inatteso che emerge nel brusio della mente e in un istante folgora una realtà, anche immaginaria o fittizia.
Per Andrea Gentile tutte«sono fantasmi, si insinuano ovunque, quando meno te l’aspetti, batteri cheti attorcigliano etitorconola gola».
Difficile davvero catalogare il potente e seduttivo Apparizioni secondo i canoni del mercato editoriale.
E un racconto che continuamente fa slittare la sua narrazione, costruisce e fa esplodere il plot, ricordando come, in un giorno qualsiasi, si può essere pronti a cambiare il proprio destino accendendo il computer invaso da notifiche, WhatsApp, email e like, «con sguardo fisso, in attesa di un’apparizione».
Oppure è un breviario di autocoscienza, tra Montaigne, Debord, Blanchot, Jankélévitch, Harari, Dennet e Florenskij, dove «il rubinetto informativo produce uno sgocciolamento regolare» di idee, visioni, folgorazioni cognitive.
Oppure è un diario/ saggio per cogliere «l’esperienza del mutamento» dei molti modi con cui «l’ego è una percezione in continuo movimento».
Gentile incrocia e dissemina il suo sapere, scienza della complessità, psicologia del profondo, scienze cognitive e tanta letteratura che possono anche riassumersi nell’immagine conclusiva della pandemia come grande irradiatore di apparizioni: «Moltiplica i pensieri della mente… colpirà mia madre, arriverà l’apocalisse, perderò il lavoro, non andrò più al cinema».
Noemi De Luca, Mar dei Sargassi, 20 maggio 2022
Durante l’ultima fiera del libro di Roma, ho scovato un volume giallo evidenziatore. Era lì, tra i banchetti dello stand di Nottetempo, con un titolo criptico: Apparizioni. E nient’altro. Solo il nome dell’autore, Andrea Gentile, riempiva la copertina monocroma. Nessuna immagine o indizio sul contenuto. Ne avevo sentito parlare, ma senza capire di cosa trattasse: spiriti? Fantasmi? Angeli e Madonne? Apro le prime pagine, e mi colpisce una frase: Che cos’è un’apparizione? Tutto appare: viene alla luce. Ma allora questo libro mi è apparso, uscito dall’ombra di colpo, col suo giallo fosforescente. È stato improvviso e inatteso: due caratteristiche essenziali delle apparizioni. Un temporale, una lacrima, un animale morto in autostrada: sono tutte apparizioni, perché ci colgono di sorpresa.
Ma non basta solo l’imprevedibilità, un’apparizione deve generare un mutamento. Felicità, straniamento, sudore, un brivido sulla schiena: sentire una virata, un cambio di direzione, un sussulto. È importante sentire: senza sensazione non c’è apparizione. Dunque, finché un essere umano avrà coscienza e percezione, avrà apparizioni. Il problema, però, è la disponibilità alla contemplazione. La nostra mente è attraversata ogni giorno da un numero di pensieri che oscilla fra i cinquantamila e gli ottantamila. Quando, per un istante, questo fiume di pensieri si ferma, è più probabile che arrivi l’apparizione. Se si ferma il chiacchiericcio che ci riempie il cervello, allora c’è la possibilità di percepire questi frammenti di realtà: attrarre nel proprio orizzonte – è questa l’etimologia di contemplari – e osservare (il volo degli uccelli) dentro un templum.
Un libro, un cancro, una morte in diretta Instagram o un cetriolo molesto in un panino: le apparizioni di Gentile sono vive, concrete, a volte perturbanti e disgustose. E le dobbiamo ringraziare, perché ci rendono vivi. Gentile rincorre questa sensazione in ogni luogo, non vuole sentirsi morto, non vuole non accorgersi della realtà. Ci racconta, capitolo dopo capitolo, l’esperienza stessa delle sue apparizioni, il momento in cui un’opera d’arte l’ha portato a fermare il fiume dei suoi pensieri e osservare. Queste apparizioni, però, non rimandano mai ad altro. Sono pura percezione della realtà. Il che si allontana, sul piano etimologico, dal contemplari. Erano gli àuguri infatti – i sacerdoti romani – a osservare il volo degli uccelli, e non lo facevano per sentirsi vivi, ma per scovare presagi.
Le rivelazioni, le epifanie: le manifestazioni della volontà divina. Da sempre, gran parte degli elementi della realtà che più generavano sgomento – lampi, tuoni, comete – veniva letta come segni di qualcos’altro che cerca di comunicare. La divinazione era proprio questo: l’interpretazione dei segni. In Mesopotamia, i sacerdoti annotavano sulle loro tavolette d’argilla nascite prodigiose o mostruose, comportamenti animali o umani, sogni, fenomeni atmosferici e meteorologici, posizioni degli astri e dei pianeti. Qualsiasi cosa che venisse alla luce. I greci erano ossessionati dai segni del presente poiché convinti che la realtà fosse ordinata da un logos, una ragione universale. Si affidavano agli oracoli per interpretarli, uomini e donne pervasi dalla mantica, letteralmente: pensiero, mania, follia, furore.
Le sibille, gli indovini, gli astrologi: tutti loro basavano profezie e vaticini su registri di eventi insoliti o straordinari. Gli dèi gli parlavano con delicatezza o furore, ma sempre attraverso le sequenze. L’estasi, il momento dell’intuizione, non voleva dire distacco dalla realtà, anzi: le danze ossessive, ripetute, le sostanze psichedeliche e i rituali servivano ad amplificare il proprio sentire. Non c’è apparizione senza sensazione. Per questo, gli oracoli si rendevano più suggestionabili e vulnerabili: miravano ad aprire al massimo la propria percezione della realtà e delle rivelazioni celate in essa. Veniva chiamata chiaroveggenza: visione chiara, la capacità di guardare oltre la conoscenza. Queste pratiche, per quanto piene di superstizione, sono state le antenate del metodo scientifico, attestando una cosa: la contemplazione non è solo estetica, ma necessaria.
Entrambe le cose – scienza e divinazione – hanno avuto un comune nemico: il cristianesimo. Per i cattolici, l’osservazione dei fenomeni naturali non aveva senso perché le uniche rivelazioni sono presenti nelle scritture. Non può essere l’uomo a scoprire i misteri del creato perché solo Dio ha questa conoscenza. E non la comunicherà tramite voli d’uccello o viscere di capra. Eppure, nonostante le posizioni dei sacerdoti, non sono mancate apparizioni all’interno di questa religione. E quelle popolari – le più sentite – sono estremamente corporee. Sangue e lacrime. Tutta la tradizione cattolica è piena di statue di cera che sanguinano o lacrimano. Statue che tradiscono il loro ruolo di statue, non erano che false riproduzioni di un qualcosa, mentre ora si muovono, parlano, si trasformano in ciò che rappresentano. La loro cera, d’improvviso, si fa viva.
Questi segni generano mutamenti: guarigioni, conversioni, sgomento. E generano significati, diventano elementi di un linguaggio che getta ponti tra al di qua e al di là. Il sangue di San Gennaro è un modo di comunicare del santo col popolo napoletano: se si scioglie, tutto andrà bene, altrimenti catastrofi e sciagure investiranno la città. È un modo collettivo di sentirsi in controllo del proprio futuro, sapere cosa aspettarsi e prepararsi. Un po’ come gli oroscopi, che si consultano sempre quando non ci si sente più al comando del proprio destino. Anche le lacrime delle statue di cera appaiono in momenti catastrofici – guerre, pestilenze, saccheggi o invasioni – nei quali il popolo ha bisogno di trovare un senso nel reale. Meccanismi di catarsi in cui si scopre che anche il divino piange per noi, sente ciò che sentiamo noi, e dunque prova pietà.
Ma ritorniamo al corpo – per Gentile, è il massimo generatore di apparizioni. Un neo, un capello bianco, un colpo di tosse (sarà Covid?), la prima eiaculazione. Tutte epifanie. E come abbiamo notato, nelle apparizioni cristiane il corpo è centrale: Dio parla attraverso corpi di cera, terracotta, bronzo. E invita i credenti ad appropriarsi delle secrezioni di quei corpi: venivano sempre immersi, dal popolo, batuffoli di cotone nel sangue e nelle lacrime. Questi materiali organici diventano il mezzo privilegiato dal divino per apparire, per comunicare e farsi presente nella storia umana. Anche la cera, così malleabile, diventa quasi un materiale organico: riesce a ricreare peli, unghie, capelli e denti, una riproduzione perfetta e spaventosa della corporeità umana. Anche per Gentile, il perturbante, le apparizioni, sono dentro di noi.
Corpo, fulmine, astro: sono elementi diversi, ma il risultato è sempre la divinazione. Si è evoluta secondo le varie influenze religiose, ma l’uomo ha continuato a ricercare nella materia che lo circonda dei segni, e le ha attribuito significati epifanici. Nonostante la diffidenza della Chiesa verso lo sguardo volto ai fenomeni naturali, i fedeli hanno continuato a credere che le stelle cadenti delle notti estive fossero le lacrime di San Lorenzo. Come i norreni e i greci, che vedevano epifanie numinose nelle tempeste. Non è facile estirpare questa tendenza: neanch’io sono riuscita ad affrontare il tema apparizioni senza evocare alcuno spirito, divinità, sogno, oracolo o premonizione. E non è un male di per sé, per l’umanità, cercare di leggere la natura e i corpi tramite l’osservazione. E neanche dare spazio alle sensazioni generate da quella contemplazione. Ci ha aiutati a capire come funziona il mondo.
Uno dei miei libri preferiti si chiama Piranesi. Racconta di una Casa che è un mondo: i suoi corridoi e saloni abbandonati si diramano infiniti, labirintici, pieni di bellissime statue di marmo. Imponenti scalinate in rovina portano a piani dove è troppo rischioso addentrarsi: fitte coltri di nubi nascondono i piani superiori, mentre maree imprevedibili sommergono i saloni inferiori. Nella Casa vive Piranesi, il suo unico abitante, che registra nei suoi diari ogni cosa che gli appare. Enormi uccelli, banchi di pesci, venti, maree e corpi celesti si susseguono nelle annotazioni, con accuratezza. Il fantastico di Clarke si popola di simboli: niente è semplicemente ciò che appare. È così che Piranesi ha capito come muoversi nella Casa, come abitarla in armonia, vivendo dei suoi frutti e schivando le forti maree che lo porterebbero nei suoi abissi. Ma ogni martedì Piranesi si incontra con l’Altro: un uomo altero ed elegante che sembra venire da qualche altro luogo.
C’è una differenza tra Piranesi e l’Altro. Il primo ama la Casa, si perde nelle sue meraviglie e nei suoi segreti, ed è convinto di essere vivo solo per poterne testimoniarne la bellezza. Il secondo vuole domarla. Ne vuole scoprire i poteri e imbrigliarli. L’Altro non è sensibile alle apparizioni, ai segni, non si interessa dei racconti di Piranesi, che inutilmente gli racconta i messaggi scoperti nel volo degli uccelli. Mira a uno scopo preciso, sfruttare la Casa al massimo. Dunque, ecco due modi di interfacciarsi con la realtà. Il primo: percepire tutto ciò che accade, annotarlo, sentirlo. Testimoniare la bellezza, interpretare i segni naturali, lasciarci coinvolgere dalle intuizioni. Il secondo: notare solo ciò che serve allo scopo finale, cioè conquistare la realtà, prosciugarla, dissanguarla. Quindi, essere ostili all’imprevisto, all’ignoto, e non si lasciarsi andare alle apparizioni.
Piranesi faceva divinazione, contemplazione, l’Altro faceva estrazione. L’umanità, ancora oggi, non riesce a fare a meno di queste modalità. Non ci sono più oracoli che leggono i voli degli uccelli, ma analisti e scienziati che sommano enormi quantità di dati per capire il mondo. Annotano informazioni nei database esattamente come Piranesi nei suoi diari, e i babilonesi sulle loro tavolette d’argilla. Quello che però manca nei dati è il mistero della divinazione. Voglio che i data scientist leggano vaticini nelle viscere delle capre? No, ma voglio che siano aperti all’apparizione. La modalità di lavoro di questi moderni indovini ricerca i dati dove già sa di poterli trovare: non si apre all’imprevisto. Li estrae dalla realtà con già in mente il loro scopo e il loro significato. Come chi ascolta un amico con già in mente cosa dovrà ribattere: si focalizzerà solo sugli elementi del discorso che servono per la sua risposta.
E non ascolta, non sente davvero. Non contempla, non attrae nulla nel proprio orizzonte che non ci sia già. Il dato è rilevazione, quindi non può essere apparizione. Invertire questa dinamica è fondamentale. Spuria da ogni superstizione, la modalità della divinazione era interessante perché attenta a qualsiasi evento che si manifestava. E, poi, perché si legava al sentire. Ogni individuo provava qualcosa nel rapportarsi ai presagi, li connetteva alla propria vita, gli dava un senso e un’interpretazione. Non restavano né distanti né separati dal quotidiano: non era importante solo l’evento che li generava, ma cosa avrebbero portato nelle vite di ciascuno. Dopotutto, se prima ci si aiutava con le ossa dei polli e con i fondi del tè, perché non usare la tecnologia per interpretare le apparizioni?